9-11 MAGGIO 2008

 

Sesshin di Ghigo di Prali

diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

 

Dai Bai Ojo: Lo spirito stesso è Buddha

 

 

 

Venerdì 9 maggio 2008, kusen delle 7:00

 

Dall’inizio di zazen, concentratevi bene sulla vostra postura. Inclinate bene il bacino in avanti e appoggiate fortemente le ginocchia al suolo. Siate seduti come se voleste che l’ano non tocchi lo zafu e rilassate bene il ventre, in modo da potervi sentire radicati nella vostra postura seduta. A partire dalla vita allungate bene la colonna vertebrale, rilassando tutte le tensioni della schiena. Tirate la nuca, rilassate bene le spalle come se voleste spingere il cielo con la sommità del capo.

In zazen, il corpo è completamente tirato tra il cielo e la terra: è ciò che dà lo slancio alla postura, e permette all’energia di circolare bene.

Allo stesso tempo, si rilassano tutte le tensioni inutili: il viso è ben rilassato, lo sguardo è tranquillamente posato davanti a sé sul suolo, senza attaccarsi ad alcun oggetto visivo; quindi non è necessario chiudere gli occhi per concentrarsi. Essere concentrati non vuol dire fare il vuoto nel proprio spirito, ma non attaccarsi ad alcun oggetto di percezione, e quindi mantenere uno spirito completamente disponibile e ricettivo. Perfettamente presente all’istante, non distratto.

La bocca è chiusa e la lingua è contro il palato. Concentrarsi sull’immobilità della lingua aiuta a ad arrestare il dialogo interiore. In zazen abbandoniamo ogni tipo di discussione. Il mentale che crea delle divisioni è abbandonato. Il modo di funzionamento dello spirito che divide e separa viene calmato. Così, tutti i conflitti interiori che sono fonte di emozioni, di attaccamento, sono abbandonati: risolti alla radice.

Così, piuttosto che seguire i nostri pensieri, siamo attenti alla respirazione. All’inizio, la accompagniamo volontariamente, sforzandoci di andare fino in fondo ad ogni espirazione, al fine di correggere la brutta abitudine di respirare superficialmente.

In zazen, ritroviamo una respirazione profonda, che comincia col vuotare i polmoni, col fare posto. E così, essere ricettivi all’aria nuova che entra con l’inspirazione.

Ed è la stessa cosa per lo stato dello spirito: con ogni espirazione, lasciamo la presa dai pensieri che ci occupano. Li lasciamo tornare alla loro fonte, che non è altro che la vacuità. Così, possiamo trovare uno spirito nuovo a ogni istante.

Diamo all’istante presente tutta la sua importanza e notiamo, constatiamo che tutto il resto non è che fabbricazione mentale e illusioni. Così non intratteniamo, non diamo energie ai pensieri che riguardano il passato, il futuro. Ci concentriamo semplicemente a penetrare la realtà presente, qui in questo dojo, con questo sangha e queste montagne.

 

 

Venerdì 9 maggio 2008, kusen delle 11:00

 

Durante zazen, non lasciate che il vostro spirito ristagni su alcunché, non lasciate che si attacchi a un pensiero e che lo insegua, e per questo tornate regolarmente alla concentrazione sul corpo e sulla respirazione. Nel movimento dello spirito che ritorna alla concentrazione sul corpo, si produce immediatamente un ‘lasciare la presa’, perché la mente non può essere concentrata allo stesso tempo su due cose. Il corpo stesso, la respirazione stessa, si trasformano incessantemente. Quindi, concentrarsi sul corpo non vuol dire attaccarsi al corpo, ma semplicemente non ristagnare sulle proprie fabbricazioni mentali, ritornare al contatto con la realtà qui e ora.

Eno, il sesto Patriarca, si risvegliò sentendo la famosa frase del Sutra del Diamante: “Quando lo spirito non dimora su nulla, il vero spirito appare”. Lo spirito che non dimora su nulla è lo spirito che realizza il ‘lasciare la presa’, istante dopo istante. Lo spirito che ritrova la sua fluidità naturale, come quando il ghiaccio in primavera si trasforma in acqua. L’acqua che era provvisoriamente bloccata, immobilizzata, ritrova la sua libertà: esattamente quello che si produce in zazen quando si ritorna alla concentrazione sul corpo e sulla respirazione istante dopo istante.

Non abbiamo bisogno di altre cose, se non di essere semplicemente seduti e di lasciar passare i pensieri senza attaccarcisi. Allora ci si armonizza naturalmente col Dharma, cioè con l’ordine cosmico.

Il Dharma è la grande legge dell’universo, secondo la quale funzionano tutte le esistenze. Ecco perché cantiamo il terzo voto del Bodhisattva: “Homon muryo sei gan do”: per quanto numerose siano le porte del Dharma, faccio voto di penetrarle tutte. Tutte le esistenze funzionano in armonia col Dharma, quindi tutte le esistenze lo manifestano. Ognuna diventa per noi una porta del Dharma, a condizione di aver sviluppato uno spirito aperto, ricettivo. E’ la funzione essenziale di zazen. E’ per questo che lo chiamiamo qualche volta ‘la grande porta del Dharma’, la porta principale. In zazen, ci armonizziamo naturalmente col Dharma e allo stesso tempo prendiamo coscienza di quello che è il Dharma.

Questa grande legge dell’universo, è la legge dell’interdipendenza di tute le esistenze: nulla di ciò che esiste, esiste di per sé. Noi stessi non esistiamo da noi stessi, ma soltanto in relazione con tutto l’universo. E siccome queste relazioni sono innumerevoli ad ogni istante, allora tutto quello che esiste è impermanente, tutto si trasforma in funzione di questa interdipendenza. Quando prendiamo coscienza di questo, allora possiamo smettere di attaccarci all’illusione di un ego separato. E’ una totale rivoluzione spirituale. Ci credevamo il centro del mondo, credevamo che il mondo fosse al nostro servizio, e scopriamo che in realtà facciamo parte di un mondo che ci oltrepassa infinitamente. Nessuna delle nostre costruzioni mentali può resistere a questa rivoluzione. Evidentemente è un cambiamento da un punto di vista radicale. La maggior parte del tempo l’ego resiste a questo cambiamento: si attacca alle sue abitudini e percepisce l’interdipendenza e l’impermanenza come una minaccia.

Praticare zazen è come acclimatare il nostro piccolo ego a questa dimensione infinita del Dharma e provare per questo una grande liberazione. Liberazione che non è altro che l’abbandono delle nostre illusioni e l’accettazione totale della realtà così com’è. E’ così che possiamo realizzare la pace dello spirito, smettendo di combattere; smettendo di opporci al Dharma. E’ quello che esprimiamo praticando sampai. E’ accettare che ci sia qualcosa di più grande di sé, di più profondo, di più vasto. E aprirsi a questa dimensione. Che lo chiamiamo Dio, Buddha, Dharma non importa: è al di là di tutto quello che possiamo nominare.

Anche se chiamiamo questo provvisoriamente interdipendenza, impermanenza, ordine cosmico, tutte queste espressioni non sono altro che mezzi abili, come tutti gli insegnamenti.

Questo vuol dire smettere di guardare il vasto cielo attraverso il buco di una cannuccia

 

 

Venerdì 9 maggio 2008, kusen delle 16:30

 

Tutte le mattine e tutte le sere dopo zazen, cantiamo i Quattro Voti del Bodhisattva, il terzo dei quali è “Per quanto numerose siano le porte del Dharma, faccio voto di penetrarle tutte”. “Porte del Dharma” si dice homon. Ho, il Dharma, è una parola straordinaria perché include numerosi significati che si completano gli uni con gli altri.

Il primo significato è la Legge, l’Ordine Cosmico, ciò che sostiene tutte le esistenze, ciò che fa sì che siamo in vita qui e ora in questo dojo. Dharma vuol dire anche le esistenze stesse: ogni fenomeno, ogni essere è un dharma. Dharma vuol dire ugualmente l’insegnamento del Buddha a partire dal suo Risveglio al Dharma, alla realtà così com’è. Vuol dire che, al fondo, ciò che ci insegna non sono delle credenze, ma l’esistenza stessa. Un buddha, un risvegliato, è qualcuno che ha realizzato la vera natura di tutte le esistenze, il Dharma che sostiene tutte le esistenze, e ne fa una fonte di risveglio e di insegnamento.

A volte si riassume l’insegnamento del Dharma parlando dei Tre Sigilli del Dharma - in sanscrito dukkha, anicca e anatta, la sofferenza o l’imperfezione, l’impermanenza e l’interdipendenza di tutte le esistenze - a cui si aggiunge spesso il nirvana, la pace, l’estinzione di tutte le sofferenze. E in definitiva possiamo dire che tutto è incluso nell’interdipendenza, che è la vera natura di tutte le esistenze, cioè il fatto di non vivere che in relazione con tutti gli esseri. E’ ciò che fa sì che l’impermanenza esista, e se la rifiutiamo, se cerchiamo di creare delle costruzioni per opporci a essa, per esempio un ego forte, dei possessi, dei poteri, ne risulta ogni tipo di sofferenza. Ma se l’accettiamo, possiamo vivere immediatamente in armonia della vita così com’è, e realizziamo che attaccarsi al proprio ego è un’illusione, una causa di inquietudine e di sofferenza. Se abbandoniamo questa costruzione mentale, se realizziamo che non ne abbiamo bisogno, allora è immediatamente la pace del nirvana. Questo è il cuore stesso dell’esperienza di zazen, non c’è bisogno di studiare molte cose, come diceva Dogen, semplicemente studiare se stessi. Vedere che in fondo a sé non c’è niente di sostanziale, nulla che esista di per sé, solamente delle relazioni. E questa è l’ultima realtà. E’ quello che cantiamo con l’Hannya Shingyo mattina e sera. E’ ciò che permette di realizzare shin mu ke ge, lo spirito senza ostacolo, uno spirito in armonia con ku, la vacuità. E’ ciò che permette di praticare mushotoku con uno spirito disinteressato, senza avidità, senza spirito di ottenimento di alcunché. Mushotoku è la porta della vera libertà. E’ ciò che fa sì che la pratica possa diventare istantaneamente risveglio e liberazione.

Comprendere ku e vivere con uno spirito mushotoku è essere immediatamente simili al Buddha.

E’ una vita talmente libera, tranquilla e felice, che non vi è bisogno di aggiungere nulla. Allora possiamo accettare l’impermanenza non come una minaccia o una perdita, ma come una possibilità: una possibilità di liberarsi dalle proprie illusioni e attaccamenti, giustamente perché sono impermanenti. Allora tutto è possibile, tutto è possibile a uno spirito che ritrova la sua fluidità, la sua flessibilità, la sua morbidezza. Tutte le nostre illusioni diventano occasioni di risveglio, nell’istante in cui le illuminiamo attraverso la pratica. Tutto diventa occasione di risveglio, e questo non ha fine.

Se crediamo di aver ottenuto il risveglio, e ne facciamo qualcosa di fisso e di permanente, allora andiamo all’opposto del Dharma, e ne limitiamo completamente le possibilità di sviluppo. Ecco perché il Maestro Dogen diceva nel Genjo Koan: “Quando il Dharma non è pienamente realizzato nel corpo e nello spirito di un uomo, egli pensa che sia sufficiente. Quando il Dharma è pienamente presente nel suo corpo e spirito, egli realizza le proprie insufficienze.”

Le persone ordinarie si illudono sul Risveglio. I veri risvegliati continuano a illuminare le loro illusioni. Detto in altro modo, il Dharma è sempre più vasto, più profondo di quello che crediamo di averne afferrato. Ciò significa che di fronte al Dharma dobbiamo restare umili e non vantarci della nostra realizzazione, non illuderci sul nostro satori, ma continuare ad andare costantemente al di là dell’al di là, in una pratica completamente aperta al Dharma.

Tutti i Buddha e i patriarchi non hanno fatto altro che seguire il Dharma come maestro, cioè essere risvegliati dalla realtà, in una pratica senza fine.

 

 

Venerdì 9 maggio 2008, mondô

 

- La mia domanda è sul nome di Dharma che chi riceve l’ordinazione di bodhisattva riceve dal Maestro. Ho notato che ci sono persone che utilizzano spesso questo nome, e addirittura lo sostituiscono al proprio; altri invece non lo utilizzano affatto. Quindi la mia domanda è: quale è l’attitudine giusta?

 

- Dipende dal motivo per cui lo si utilizza: è lo spirito che conta. Si può utilizzare il proprio nome di Dharma, cioè il nome di ordinazione con uno spirito giusto, oppure con uno spirito illusorio. E’ lo spirito che conta. Ma credo che sia bene utilizzarlo, a condizione di utilizzarlo per ricordarsi che a partire dalla propria ordinazione è veramente la realizzazione del Dharma di Buddha che è diventata la nostra identità, il senso della nostra vita. E quindi utilizzare questo nome è proprio come ricordarsi che è questo il senso della nostra vita. Non solo attualizzare il proprio nome di Dharma, ma attualizzare il Dharma stesso. Il nome è semplicemente come un dito che mostra la luna, è il Dharma che bisogna realizzare. Il nome, come tutte le parole, ci mostra una direzione; allora, quello che è importante è seguire questa direzione. Non è semplicemente attaccarsi a un nome e farne una sorta di distinzione, di decorazione, o diventare qualcuno di speciale, questo è veramente qualcosa di illusorio. “Io sono diverso dagli altri, ho un nome speciale, giapponese....” Tutto può essere pervertito dall’illusione, bisogna essere molto vigili. Ma con lo spirito giusto è bene utilizzare il nome di Dharma.

 

- Ok, d’accordo, grazie.

 

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- Sull’onda dei tuoi insegnamenti di oggi, cosa accade quando recitiamo: “Prendo rifugio nel Buddha, prendo rifugio nel Dharma, prendo rifugio nel Sangha?”

 

- Dipende. Dipende da come si prende rifugio! Ci sono delle persone che credono di prendere rifugio e che non prendono veramente rifugio. Ricevono l’ordinazione ed è tutto. Ma prendere veramente rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha, nei Tre Tesori, vuol dire prendere veramente il Buddha come Maestro, e quindi rispettare completamente il suo insegnamento, sforzarsi di seguirlo profondamente, veramente. E di farne il senso della propria vita, veramente. Cioè da quel momento non perdere più il proprio tempo a perseguire ogni sorta di cose futili, illusorie, ma veramente dirsi che la vita è troppo breve, che non bisogna perdere del tempo e che la realizzazione del Dharma del Buddha è diventata la cosa essenziale. Evidentemente non solo per se stessi ma per tutti gli esseri, per condividere questo con tutti gli esseri. E questo avendo una vita di Sangha, una vita di comunità, condividendo la pratica con gli altri. Allora diventano veramente Tre Tesori, e tutto il resto ci sembra avere molto meno valore. Se si è trovato un vero tesoro, le altre cose non sono più importanti. E quindi è importante realizzare il valore di questa ordinazione, e di confermare questo attraverso la pratica. Continuare il gyoji costantemente, approfondirlo, non smettere mai, con fede, cioè con fiducia nel fatto che ha il potere di liberare veramente tutti gli esseri dalla sofferenza.

 

- E la ripetizione? Può aiutare?

 

- La ripetizione di cosa, della presa di rifugio? Sì, sì, certo! E’ la ragione per la quale vi sono delle cerimonie, c’è una cerimonia per i monaci, qualche volta una volta al mese o più volte al mese che si chiama Ryaku fusatsu, che noi chiamiamo secondo me un po’ a torto ‘cerimonia del pentimento’ perché comincia col san ge mon, il Sutra del pentimento, in cui prendiamo coscienza di tutto il cattivo karma passato e facciamo il voto di abbandonarlo. Ma non è solo questo. A partire da questo pentimento, cioè a partire dalla presa di coscienza dei propri errori passati che hanno creato così tanta sofferenza sia per gli altri che per noi, rinnoviamo i voti di seguire i Tre Tesori, non solo i Tre Tesori ma anche tutto i lignaggio dei maestri della trasmissione, e anche di praticare i quattro voti del bodhisattva. E questo nella tradizione lo si ripete due volte al mese. E quindi la ripetizione è una buona pratica per ricordarsi, non bisogna dimenticare. Se no ci si fa ordinare una volta nella vita e poi si dimentica. Non sempre, ma qualcuno dimentica. Ma effettivamente ripetendo, questo aiuta a impregnarsi. Dunque ora io propongo di fare regolarmente questa cerimonia. L’ho fatta per esempio a Nizza due giorni fa. Una volta al mese è bene, per ricordarsi. Ricordarsi è molto importante, ricordarsi del Dharma.

 

- Grazie.

 

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- Sul kyosaku che ci ha consegnato all’ultima sesshin c’è calligrafato per il gruppo hishiryo Volevo chiedere, si tratta di un’attitudine da tenere durante la pratica? O meglio, si danno varie definizioni. Qual’è il suo reale significato?

 

- Hishiryo è l’essenza di zazen, dello stato dello spirito in zazen. Shiryo vuol dire il mentale ordinario, il pensiero che crea delle differenze, quindi il pensiero verbale, che forgia dei concetti, delle nozioni, e che in seguito le utilizza per agire per esempio nella realtà. Ma il problema è che questo pensiero è necessariamente dualista e limitato, shiryo, il mentale. Certo, è necessario, altrimenti dovremmo andare all’ospedale psichiatrico se il mentale non ci funziona più. Questo pensiero dualista che permette di identificare gli oggetti, di identificare se stessi come soggetto è fondamentale, non c’è nessun dubbio, ma il problema è che questo modo di pensare del mentale invade la totalità dell’essere umano e quindi soffoca l’intuizione di una realtà più profonda che è la realtà della non separazione, della non dualità, che è la realtà religiosa. Tutte le religioni si sforzano di ritrovare questa realtà. Allora, se cerchiamo di ritrovarla solamente attraverso delle credenze, è insufficiente, perché nelle credenze vi è di nuovo un oggetto che diventa una nozione, un concetto, anche se è Dio, Buddha, è ancora una nozione, in dualità in rapporto al soggetto che prega, che pensa. Quando invece in hishiryo, hi vuol dire al di là. Ma non a livello del concetto del al di là, è la pratica dell’al di là. Pratica di andare al di là, di andare al di là del mentale ordinario, al di là di questo modo di pensare che vuol sempre afferrare qualcosa. E dunque è veramente la grande liberazione: hishiryo, lasciar cadere lo spirito limitato, lo spirito che cerca sempre di rinchiudere la realtà nelle proprie produzioni mentali, nei propri schemi. Quando funzioniamo così, essendo condizionati dal questo mentale, non possiamo essere felici, essere veramente soddisfatti, siamo chiusi, ristretti, nei nostri schemi, nei nostri pensieri e manchiamo la dimensione infinita dell’esistenza, la dimensione illimitata, che è la realtà. Non siamo rinchiusi in questo sacco di pelle, anche la pelle respira, la vita è uno scambio costante, e bisogna ritrovare questa capacità di scambio, di apertura. Questo è hishiryo: la pratica di abbandonare il nostro pensiero limitato e di andare costantemente al di là di tutti i concetti, di tutte le nozioni, delle coagulazioni mentali e aprire lo spirito all’infinito. Ma anche questa parola, infinito, illimitato, è ancora una parola, un dito, per mostrare; non bisogna attaccarsi a una parola, nessuna parola può spiegare o designare veramente. Ma praticare zazen permette di realizzarlo, ed è questo che è prezioso nella pratica di zazen: hishiryo, l’essenza della pratica.

 

- Grazie

 

 

Sabato 10 maggio 2008, kusen delle 7:00

 

Durante zazen, continuate a concentrarvi bene sulla vostra postura; in particolare, non lasciate che la testa cada in avanti. Spingete bene il cielo con la sommità della testa, rientrando il mento.

Rilassate le spalle, distendete il ventre, e concentratevi bene sull’espirazione. Fate anche attenzione alla posizione delle mani. La mano sinistra è nella mano destra, il bordo delle mani è in contatto col basso ventre, i pollici si toccano orizzontalmente. Non lasciate che i vostri pollici cadano.

Quando ci si concentra sul contatto dei pollici e sulla forma delle mani in zazen, allora si smette di pensare con la mente ordinaria, ma si pensa attraverso il corpo e lo spirito in unità. Questo pensiero è al di là dell’attaccamento a tutti i pensieri.

Lo spirito diventa come un vasto specchio che abbiamo chiamato Hokyo Zanmai: il Samadhi dello Specchio Prezioso che canteremo questa mattina e che comincia con l’espressione “Nyoze no ho” “Così è il Dharma”, così com’è, al di là di tutte le nozioni, al di là di tutti i pensieri: è con questo ‘al di là di tutti i pensieri’ che noi ci armonizziamo in zazen.

Il Dharma del Buddha si è trasmesso da maestro a discepolo attraverso la concentrazione in zazen. E questa concentrazione non è una tecnica particolare ma risulta al contrario dall’abbandono dello spirito della tecnica, lo spirito che vuole sempre manipolare le cose per ottenere qualcos’altro.

La pratica di zazen è realizzata spogliando il corpo e lo spirito da ogni spirito di ottenimento. Non c’è bisogno di nient’altro che questo. Anche se dopo zazen cantiamo dei sutra, facciamo delle cerimonie, pratichiamo delle prosternazioni, queste pratiche non sono necessarie. Una sola cosa è necessaria: abbandonare completamente se stessi nella pratica di zazen.

Quando cominciamo a cercare il Dharma, è molto lontano da noi perché ce ne facciamo una certa idea e così ce ne separiamo. Ma quando abbandoniamo tutte le idee, tutte le nozioni, il Dharma che siamo noi stessi si attualizza nella nostra pratica. E’ una grande liberazione. Ma se pensiamo di aver ottenuto la grande liberazione, allora ne facciamo immediatamente qualcosa di limitato.

Nel Sutra di Vimalakirti Sariputra chiede a una dea che ha una bellissima voce: “Che cosa avete ottenuto, quale realizzazione vi ha dato un tale potere di espressione?

Ella rispose: “E’ il fatto che non ho guadagnato nulla e non ho realizzato nulla che mi ha permesso di raggiungere questo stato”.

Perché secondo il Dharma del Buddha colui che raggiunge, che ottiene qualcosa, è qualcuno pieno di vanità. E così, in definitiva, l’essenza del Dharma del Buddha è la pratica mushotoku.

E’ quello che ha insegnato per quindici anni ogni giorno il Maestro Deshimaru: solamente mushotoku; e così lo spirito è immediatamente liberato da tutti i suoi veleni.

 

 

Sabato 10 maggio 2008, kusen delle 11:00

 

Con il quarto voto del bodhisattva noi diciamo: “Per quanto sia elevata la Via del Buddha, faccio voto di realizzarla.Homon, le porte del Dharma, che abbiamo fatto voto di penetrare nel terzo voto, sono l’insegnamento sulla realtà, così com’è la realtà stessa. Butsu do, la Via del Buddha o la Via del Risveglio, è la pratica stessa.

In funzione della propria comprensione del Dharma si sono sviluppate differenti pratiche.

All’inizio era soprattutto la pratica dell’Ottuplice Sentiero: la comprensione e il pensiero giusto che costituiscono la saggezza; le parole, le azioni, così come il modo di vita, la professione giusta che costituiscono l’etica, e poi l’attenzione, la concentrazione e lo sforzo che costituiscono la dimensione della meditazione.

Nello Zen chiamiamo questi tre generi di pratica kai jo e: kai i precetti, jo la concentrazione, la meditazione ed e la saggezza. Queste tre pratiche costituiscono la Via del Buddha. La Via non è solamente un cammino tracciato sul quale si suppone che camminiamo, ma il cammino stesso, la pratica stessa è la Via. E’ il fondamento di quello che chiamiamo gyoji, la pratica costante. Spesso nel buddhismo del Grande Veicolo, del Mahayana consideriamo l’Ottuplice Sentiero come la pratica degli Ahrat, cioè dei santi del Piccolo Veicolo, e spesso la critichiamo come una pratica limitata. Eppure è la Via del Buddha.

Quello che c’è qualche volta di limitato non è questa pratica, ma lo stato dello spirito che l’accompagna. Lo spirito che ricerca il risveglio solo per se stesso e che vuole mettere fine da questa vita alle rinascite. Quindi è uno stato dello spirito in cui opponiamo il mondo del samsara, della vita quotidiana e il mondo del nirvana, che sarebbe l’estinzione totale di ogni forma di vita in questo mondo. Ma in questo caso non si tratta più della più alta Via del Buddha, butsu do, poiché nella Via del Buddha non vi è nessuna separazione tra sé e gli altri, tra samsara e nirvana.

Il samsara è il luogo dove realizziamo la Via e dal momento che mettiamo fine alla nostra ignoranza, che abbandoniamogli atteggiamenti di odio e avidità, di ostilità - per esempio l’odio per il samsara e l’avidità per il nirvana - appena abbandoniamo questo, questa vita di samsara diventa essa stessa nirvana.

Il secondo grande aspetto del Dharma del Buddha è l’insegnamento sulle Dodici Cause Interdipendenti che spiega come trasmigriamo e come la nostra trasmigrazione diviene il samsara. Come a causa della nostra ignoranza, sviluppiamo un cattivo karma che influenza la coscienza, che condiziona a sua volta il corpo e lo spirito: per esempio in una nuova rinascita che condiziona a sua volta l’apparizione degli organi di senso, che condizionano il contatto, e quindi le sensazioni e poi i desideri, gli attaccamenti, il voler vivere per continuare a intrattenere questi attaccamenti, che porta a una nuova nascita, che porta a sua volta alla vecchiaia, alla malattia e alla morte.

Buddha aveva realizzato che questa catena poteva essere spezzata in ogni punto, in ogni anello, e principalmente risolvendo l’ignoranza. Quelli che prendono questo insegnamento come loro pratica principale hanno la tendenza a voler spezzare tutti gli attaccamento e a liberarsi loro stessi, soli, uscendo da questo incatenamento del samsara.

Quando possiamo comprendere questa concatenazione delle Dodici Cause Interdipendenti come il significato del fatto che il nostro ego è senza sostanza ma solamente condizionato, allora possiamo abbandonarlo, abbandonare questo attaccamento all’ego; e allora nessun fenomeno di questo mondo può turbarci o disturbarci, provando per questo una grande liberazione.

Siccome questa liberazione sorge dall’abbandono di se stessi, del proprio ego, e dalla presa di coscienza della nostra totale interdipendenza con tutti gli esseri, si accompagna a una grande compassione. Allora la paura di rinascere in questo samsara sparisce, e accettiamo volentieri di continuare a esisterci per venire in aiuto a tutti gli esseri sensibili. E a quel punto la nostra rinascita non è più condizionata dal karma, ma dallo spirito del risveglio.

E questo conduce a praticare la Via del Bodhisattva che è quella che seguono principalmente i discepoli dello Zen concentrandosi sulla pratica delle paramita: il dono, i precetti, la pazienza, lo sforzo, la meditazione e la saggezza.

Così nello Zen comprendiamo generalmente butsu do, la Via del Buddha, come la più elevata, come la Via del Bodhisattva.

Ma secondo un insegnamento del Maestro Dogen che è il fondatore della nostra scuola Soto, non conviene fare delle differenze o delle opposizioni. Secondo lui un vero discepolo del Buddha deve studiare e praticare tutti questi insegnamenti, poiché in fondo a ognuna di queste pratiche, a ognuno di questi insegnamenti risiede il Risveglio del Buddha. E d’altra parte sono tutti l’espressione del suo Risveglio. Quello che ne fa la Via più elevata, è nuovamente lo spirito con cui pratichiamo.

Se pratichiamo questi differenti insegnamenti, queste differenti vie con uno spirito mushotoku, non cercando di accumulare dei meriti o profitti per noi stessi, allora ogni pratica è una pratica di risveglio, immediatamente.

E in definitiva non c’è ragione di opporre i Veicoli, Piccolo Veicolo, Grande Veicolo. Non c’è in fondo, come insegna il Sutra del Loto, che un solo grande Veicolo del Buddha: tutti gli insegnamenti, tutte le pratiche non sono altro che dei mezzi abili per farci realizzare questo. E questo non si lascia rinchiudere nelle nostre categorie mentali. Ecco perché è veramente butsu do, la Via del Risveglio, al di là di tutte le differenze, di tutte le separazioni. E’ un modo di vivere in armonia con il Dharma, una pratica che non è separata dalla realizzazione.

 

 

Sabato 10 maggio 2008, mondô

 

- Alla Gendronnière, alle sesshin, tu parli tanto, e i maestri parlano tanto degli insegnamenti del Dharma, delle paramita, e della pratica. Poi però capita che nelle sesshin o nel dojo, persone che praticano anche da tanto tempo entrino molto in contraddizione con l’insegnamento.

 

- Vuoi dire che non lo seguono?

 

- No. Seguono...

 

- Che non sono d’accordo? Che cosa vuoi dire?

 

- Che si arrabbiano, parlano: lui ha detto questo, lui ha detto quest’altro, allora questo lo facciamo così, io non sono d’accordo... Questo a me crea e mi ha creato un momento difficile. Anche questa sesshin è difficile.

 

- Perché?

 

- Mi viene male a tutte le ossa, ma non perché ho tanto male a tutte le ossa. Queste contraddizioni con l’insegnamento fanno indebolire la pratica.

 

- Ma innanzitutto non tutti sono così. E in più le persone che seguono la pratica, gli insegnamenti, non sono dei santi, non sono perfetti. E d’altronde in un certo senso è bene che ci sia questa libertà, e anche la libertà di sbagliarsi. Sarebbe molto inquietante se al contrario tutti, quando il godo dice qualcosa, tutti agissero perfettamente bene. Per me sarebbe troppo bene, sarebbe inquietante. Vorrebbe dire che le persone sono un po’ come nell’esercito, e dunque sentono qualcosa e, hop, automaticamente lo praticano. Non voglio dire che non bisogna praticare l’insegnamento, ma che vi è anche una tolleranza di accettazione degli errori, e anche questo fa parte della pratica. Tu devi lavorare per avere uno spirito più morbido. Allo stesso tempo capisco il tuo problema, lo capisco molto bene. Ma di fronte questo problema la sola risposta è smetterla di guardare gli altri: ah, lui non ha una buona pratica perché critica, non bisognerebbe criticare, ma critica lo stesso, quell’altro va in collera e non bisognerebbe andare in collera.... Concentrati su te stessa, a praticare per quanto puoi l’insegnamento, e nei confronti degli altri ad avere molta tolleranza. E allo stesso tempo se pensi che possa essere utile, puoi ricordare gentilmente a qualcuno che va in collera che è meglio non andare in collera, soprattutto se è qualcuno che è già ordinato bodhisattva, e che ha dunque ricevuto i precetti. Tu puoi gentilmente fare una raccomandazione: sento che state criticando, sarebbe meglio smettere le critiche. Sarebbe un’attitudine più positiva piuttosto che di soffrire interiormente e ammalarti alle ossa e forse perdere la fiducia nella pratica. Bisogna capire in ogni modo che le persone che vengono allo zen hanno un vecchio karma difficile, e che anche se ascoltano l’insegnamento, anche se desiderano praticare non diventano perfetti da un giorno all’altro. Perché l’insegnamento non si dirige come si dirige un esercito di soldati, tutti così, perfetti, e quello che fa un errore, paf!, in prigione. Non funziona così. Certo, ci sono degli errori, ma bisogna imparare a partire da questi errori. Maestro Deshimaru ci diceva sempre quando sbagliavamo, ce lo faceva notare, ci criticava direttamente; ma se comprendevamo il nostro errore e ci scusavamo - oh, sono desolato! -, se facevamo così ci diceva: non è grave, ma non rifatelo, non fate due volte la stessa cosa.

Se abbiamo questa condizione di spirito, possiamo progredire a partire dall’osservazione dei nostri errori. Ma se diventiamo troppo rigidi, troppo intolleranti, verso gli altri e verso noi stessi, aggiungiamo della sofferenza supplementare, e questo non aiuta a risolvere il problema. Certo, voglio dire a tutti: per favore, concentratevi a cercare di seguire l’insegnamento, non dico che bisogna fare tutto quello che si vuole; al contrario se si è compreso veramente quanto la pratica dello Zen sia importante nella nostra vita, bisogna dare ancora di più energia e attenzione per praticare. Lo Zen, e il Buddhismo in generale, non è una questione di credenza o di conoscenza teorica. Non è sufficiente capire le paramita, per esempio: comprendiamo le cose veramente se le pratichiamo; se non le pratichiamo è perché non le abbiamo veramente comprese. Se non pratichiamo l’insegnamento è perché non lo abbiamo compreso, anche se pensiamo di aver capito. Tutti, me compreso, ognuno di noi deve fare uno sforzo per praticare insieme, ma allo stesso tempo essere tolleranti in relazione agli errori: ma ciò non vuol dire non considerarli degli errori. E’ importante vedere gli errori, cercare di correggerli. Ma diventare malati per questo non va bene. Non farà progredire nessuno, né te né gli altri.

 

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- Io volevo chiederti fino a che punto il ‘giusto sforzo’ è giusto. Io come faccio a capire che è giusto, oppure è solo uno sforzo, e non è più giusto?

 

- Lo sforzo è giusto se è mushotoku. Ma se facciamo uno sforzo per ottenere una ricompensa, per ottenere qualche cosa, allora non è veramente uno sforzo giusto. Ma se no lo sforzo è uno delle paramita, è importante. Tu hai l’aria di considerare lo sforzo come qualcosa che non va tanto bene. Lo sforzo vuol dire dare tutta la propria energia per praticare ciò che è giusto, precisamente. E quello che trovo che possiamo fare di meglio nella vita è concentrare la nostra energia per praticare ciò che è giusto. E’ quello che chiamiamo lo sforzo. Lo sforzo non è solamente del volontarismo, è veramente canalizzare la propria energia nella buona direzione.

 

- E come fanno le mie gambe a capire questo giusto sforzo?

 

- E’ per i dolori in zazen? E’ questo? [risate] Credo che in effetti è la mente che ha male, lo spirito, e non solo le gambe.

 

- Ma anche le gambe, a livello fisico. [risate]

 

- Quello che voglio dire è che l’atteggiamento mentale che hai tu in rapporto al dolore è la cosa più importante. Quando abbiamo male alle gambe, cosa che succede spesso in sesshin, se siamo tesi per resistere alla voglia di muoversi è effettivamente uno sforzo penoso. Dunque lo sforzo che bisogna fare in quel momento è lo sforzo di sdrammatizzare il dolore, non farne una tragedia, minimizzare un po’: non è poi così grave. E anche fare lo sforzo di non muoversi, non con uno spirito di competizione con se stessi, per dire: io sono il più forte, non mi muoverò, ma fare lo sforzo di non muoversi per compassione per gli altri, per sostenere l’atmosfera e aiutare gli altri nella pratica: questo è uno sforzo generoso. Non uno sforzo come quello di uno sportivo che vuole assolutamente battere un record, ma è la pratica del fuse, del dono: donare la propria energia per praticare nella maniera giusta, senza disturbare la concentrazione degli altri muovendosi; e a quel punto questa maniera di praticare non sopprime evidentemente il dolore, ma lo rende molto più sopportabile. Quello che voglio dire è che l’atteggiamento di spirito in rapporto al dolore è la cosa più importante. Ma se diviene troppo insopportabile, malgrado tutto, è del tutto possibile fare gassho discretamente e sciogliere la postura.

Lo sforzo che non sarebbe giusto è lo sforzo dove veramente lo zazen divenisse una specie di mortificazione, se arriva a quel punto non è giusto. Non ci sono delle ragioni per coltivare il dolore, nel Buddhismo non pensiamo che il dolore e la sofferenza siano dei mezzi per purgarci dei nostri peccati, non lo pensiamo assolutamente. Il dolore, la sofferenza nel Buddhismo è sempre visto come qualcosa di anormale e bisogna cercare di risolverlo. A tutti i livelli: mentale, fisico. Non è qualcosa di cui dobbiamo dire per esempio: ah, è bene, soffro per riscattarmi dai peccati. Non è così: questo è uno sforzo errato.

 

- E dunque, quando c’è questo dolore che è molto difficile da sopportare ?

 

- Sta a ognuno valutare, la soglia di dolore è molto soggettiva: quando diventa insopportabile. Prima di sciogliere l’incrocio delle gambe, cercare di concentrarsi sull’espirazione per rilassarsi. Spesso ciò che succede arrivati a un certo livello di dolore, se continua ad aumentare diventerà intollerabile, perché pensiamo che aumenterà sempre, fino alla fine di zazen, ma non è vero. Spesso il dolore arriva fino a un certo stadio e dopo si stabilizza, o persino diminuisce.

 

- A me è già successo, però devo essere sincero, so che in zazen bisogna concentrarsi sulla postura, sul respiro, però quando proprio sto male penso a qualcosa che mi piace, non so se faccio bene o no, ma funziona!

 

- In linea di principio sarebbe meglio non utilizzare questo genere di mezzi. Ma se lo si fa per qualche minuto, per non muoversi, per superare un punto difficile, perché no?

 

D.: Perché dopo quattordici anni divento vecchio, comincio a diventar vecchio, probabilmente è anche quello, no?

 

-Ma se pratichi di più, il tuo corpo si ammorbidirà.

 

- Dici?

 

- Sì, sì. Secondo me il problema è che tu non pratichi abbastanza. [risate]

 

- Grazie! Devo praticare di più! [risate]

 

- Per ammorbidire il corpo, renderlo più morbido.

 

- Non sono molto convinto di questo.

 

- Recentemente è morto lo zenji, il capo del tempio di Eihei-ji: aveva 103 o 104 anni. Non poteva quasi più camminare, ma faceva zazen tutte le mattine. Allora non bisogna prendere a pretesto l’età per dire: adesso sono troppo vecchio...

 

- Per arrivare a centoquattro anni allora faccio anch’io zazen tutte le mattine. [risate]

 

- Buona continuazione! Per aiutare gli altri, incoraggiare gli altri a fare lo stesso.

 

- Ok. Però il male alle gambe ce l’ho sempre. [risate]

 

* * * * * * * * * *

 

- Sono ventiquattro anni che il Maestro Deshimaru è morto, e mi ricordo che l’ultimo suo messaggio...

 

- Sono 26 anni.

 

- Ah, sì. L’ultimo suo messaggio quando ha dichiarato l’anno della non-paura, lui aveva incaricato i suoi discepoli di cambiare, di allargare, l’ambito della nostra pratica e di portare la pratica non solo, ma l’intervento, seminare diciamo lo spirito dello zen che è lo spirito di compassione, nel sociale. E quindi di creare dei gruppi di intervento in vari ambienti proprio per aiutare gli altri come dovrebbe essere il senso della nostra missione di bodhisattva.

Allora, non è che vogliono fare una piccola critica, ma io vedo che quelli che vengono qui a parlare parlano solo del loro problema personale, del loro, del nostro diciamo, piccolo ego, delle relazioni all’interno della sangha eccetera. E a parte certe iniziative personali di persone che anche qua, che sono veramente speciali, che vanno per esempio negli ospedali, nelle scuole, ma sono delle cose molto individuali. Io vorrei sapere se si è cercato mai - a mio avviso io non ho mai saputo se si sono creati dei gruppi ed è stato organizzato proprio dall’AZI un programma per creare dei gruppi di intervento, con un ben definito scopo, naturalmente benefico, non scopo o interesse personale, ma di aiutare, ad esempio anche quando succedono grandi disastri come per esempio adesso in Birmania, o politico, quando succedono delle cose inaccettabili dal punto di vista politico in vari paesi, per esempio diciamo in Cina che io ho visitato, dove ci sono dei fantastici monasteri ...

 

- Taglia corto, perché se fai un discorso così, io non ho più... non è più possibile... Stop! Abbiamo capito. La domanda?

 

- Sì, allora la domanda è questa: se si è mai cercato di fare, si sta facendo, si potrebbe organizzare... e che cosa si fa in questo senso; e qual’è il senso secondo te dello Zen, se è questo che bisogna fare.

 

- Penso che è importante esprimere la pratica del Bodhisattva nella vita quotidiana; ogni volta che l’occasione si presenta esprimere la compassione, la benevolenza, nei confronti degli esseri che soffrono e hanno bisogno di aiuto. E penso che ci sono più persone di quanto tu immagini che lo fanno. Ma non è organizzato a livello dell’associazione, non è strutturato, non ci sono dei gruppi di intervento, e non credo che sia una buona cosa crearne, penso che debba venire dall’iniziativa di ognuno far fronte e rispondere alle situazioni. Ma in quanto associazione organizzarsi per intervenire in alcune circostanze non lo sento. In primo luogo perché se guardassimo quello che succede nel mondo non avremmo più un solo minuto libero per fare zazen. Ci sono talmente tante cose e situazioni che richiedono il nostro intervento, infinite. E allora credo che in quanto bodhisattva bisogna aiutare là dove possiamo aiutare: nella nostra professione, nelle nostre relazioni sociali, nel quartiere, nella città. Ma quando se ne presenta l’opportunità.

Ma credo che la cosa più importante, l’aiuto che possiamo portare è di diffondere la pratica di zazen. Perché se questa pratica si espande, stimolerà, io spero, ognuno nel suo ambito ad avere questo atteggiamento di compassione e di aiuto a risolvere la sofferenza. Dobbiamo capire che siamo una piccola comunità. Il mio sangha è di 400-500 persone, l’AZI nel suo insieme è di 1500 persone, è una piccola comunità. Non siamo come la Chiesa Cattolica che può organizzare dei comitati di lotta contro la fame, raccogliere delle offerte. Se cominciamo a utilizzare la nostra energia per fare questo non avremo più il tempo per zazen, è chiaro.

 

- L’aveva detto Deshimaru quella volta, è questo che volevo chiederti. Il Maestro Deshimaru aveva parlato in questo senso però, lui aveva pensato di organizzarlo, poi dopo è morto purtroppo, però lui voleva organizzare dei gruppi..

 

- Quello che voleva soprattutto fare erano dei gruppi di persone che riflettessero su come aiutare in alcuni ambiti, per esempio le persone che lavoravano nel settore della salute, o in quello dell’educazione, riunirsi e riflettere insieme, e a partire dalle loro riflessioni forse trovare dei mezzi per esprimere la pratica nel loro campo. E bisogna anche dire che il Maestro Deshimaru aveva delle grandi idee, ma poi praticavamo quello che era possibile. E alla fine non era possibile fare gran che, perché il compito è troppo vasto. Parlavamo dello sforzo prima, bisogna veramente riflettere su come utilizzare il proprio tempo e la propria energia in questa breve vita, qual’è la maniera più utile. Io ci penso tutti i giorni. E credo che sia più efficace trasmettere l’insegnamento e la pratica perché si sviluppino ed ispirino un comportamento più giusto da bodhisattva piuttosto che organizzare dei gruppi di intervento. Guardate quando vogliamo organizzare una sesshin o qualcosa in un dojo, o anche avere una pratica quotidiana in un dojo, la maggior parte delle persone dice che non ha tempo, che non può farlo. Vorremmo affiggere delle locandine e il responsabile tutto solo mette le locandine perché nessuno è disponibile. E’ un problema enorme, la maggior parte delle persone ha molto lavoro, deve aiutare la propria famiglia. Vogliono praticare, prendono un po’ di tempo la sera, e appena lo zazen è finito ritornano a casa perché c’è la famiglia che li aspetta. Ed è già buono che abbiano trovato due ore per praticare. Quindi che cos’è più prezioso, aiutare le persone a praticare, o a queste persone che non hanno tempo gli si chiede di organizzare un comitato di lotta contro la fame? Certo, è un grande problema...

 

- Ma potremmo fare qualcosa tutti insieme. Potremmo stimolare le persone, bisognerebbe stimolare in qualche modo, magari, chi lo sa, ogni tanto parlarne. Si potrebbe fare. C’è qualcuno che è disponibile, volete che facciamo qualcosa?

 

- Ma comincia tu allora.

 

- Ma io sono all’ultima parte dell’impero purtroppo. Quelli di Graz sono bravi perché lavorano negli ospedali, ce ne sono certi che vanno, però bisognerebbe farlo nel senso zen, e magari se tu ci darai qualche indicazione, se tu avessi qualche buona idea.

 

- In ogni caso io incoraggio tutti, tutti i miei discepoli che hanno l’idea di fare qualcosa nella società li incoraggio, li stimolo, abbiamo già passato qualcosa sul sito dell’associazione, e dico in questa occasione che tutti quelli che hanno delle pratiche di aiuto per risolvere i problemi della sofferenza nel mondo a partire del loro spirito del bodhisattva, che hanno delle testimonianze interessanti, non esitate a scriverle e pubblicheremo le vostre testimonianze per stimolare gli altri, dare delle idee.

 

- Allora lo posso dire subito, stiamo creando un gruppo per aiutare delle famiglie di Korogocho, voi lo sapete, vicino al Kenia, e vivono nell’immondezzaio dove muoiono tutti i bambini di AIDS, ecc. Quindi io chiedo soldi, posso dare un conto corrente per esempio sul quale si possono fare dei versamenti. Questo si può fare. Certamente non andare a Korogocho tutti, però anche, volendo. Questa è un’idea, poi ne ho tante.

 

- Hai creato un’associazione per questo?

 

- No, è mia figlia. Con mia figlia stiamo facendo, e poi con altre persone di Milano. Perché là ci sono i missionari, e questo è per un certo gruppo, perché sono milioni, ed è molto difficile, ci vorrebbe... C’è un gruppo di persone per le quali io, col mio dojo faccio, mi aiutano tutti, mi danno. Hanno adottato un bambino, cinquanta euro al mese servono per adottare questo bambino, mantenerlo e farlo studiare. Ho detto: se non potete tanto in cinque date dieci euro ogni mese, versiamo su questo conto e vi arriva direttamente, e c’è una persona giù che gestisce. Ecco, allora, se qualcuno i voi vuole partecipare io glie lo dico subito. Non pensavo di dirla adesso questa cosa, ma noi facciamo queste cose. Ecco, si fa quel che si può. Ecco, allora sappiate che se volete io vi darò un numero. Lo possiamo mettere sull’ABZE?

 

- Sì, certamente.

 

- Allora scriverò al sito, così quelli che vogliono versano ogni mese o dieci o venti, quanto possono, però devono prendersi l’impegno per un anno. Va bene? Ok. Grazie.

 

* * * * * * * * * *

 

- Ieri sera nel gruppo di Alba mi hai detto una cosa che mi ha colpito molto. Io ti avevo appena detto che avevo avuto un anno difficile per mio figlio, e che quindi la mia pratica in questa sesshin era molto difficile. Tu hai detto che dopo due o tre anni che si pratica ci può essere un momento in cui facciamo molta fatica, è difficile lasciare i nostri attaccamenti.

 

- Attenzione, non parlavo dell’attaccamento a tuo figlio, l’attaccamento ai figli penso che è naturale.

 

- No, ma io ho capito con quello, ho realizzato in quel momento che il problema di mio figlio che c’era, in realtà era un falso problema, che io stavo vivendo questo momento che tu dicevi, ed è per questo che faccio molta fatica. Mi sono ricordata che quando ero piccola e andavo al catechismo, mi dicevano che quando sarei morta, mi sarei trovata su una nuvoletta e quella sarebbe stata la mia vita. Io ero arrabbiatissima. Pensavo fosse una fregatura, pensavo che di là avrei visto i miei giochi, i miei genitori, e non era una cosa che mi piaceva. Io adesso mi sento allo stesso modo: è come se con lo zazen dovessi arrivare a distaccarmi da tutto, e questo mi fa paura e mi fa soffrire. Volevo sapere da te se questo momento che sto vivendo e che dici che può capitare dopo due o tre anni di pratica, se puoi dare qualche consiglio su come superarlo.

 

- Quello che ho voluto dire è che all’inizio della pratica siamo spesso molto entusiasti, perché pensiamo di poter ottenere molti benefici, meriti attraverso la pratica e abbiamo molte aspettative, molte speranze, e dunque pratichiamo in funzione di queste aspettative e in definitiva accade che proprio il fatto di praticare aspettando un risultato, dei benefici, questo modo di praticare che non è disinteressato, che non è libero da tutti gli oggetti, ma al contrario un po’ avido di ottenere qualcosa,

è questo atteggiamento che impedisce la vera liberazione, che è la funzione essenziale del Buddhismo. Allora in altri termini, quello che voglio dire è che c’è una svolta, bisogna oltrepassare uno scoglio, che è il momento in cui realizziamo che è solamente il momento in cui lasciamo la presa da tutti gli obbiettivi e da tutti i nostri desideri di ottenere qualcosa per mezzo della pratica che la pratica può diventare realmente, veramente liberatrice. E’ come una rivoluzione interiore, spirituale, e se possiamo oltrepassare questo scoglio, possiamo continuare la pratica liberamente, con gioia, e la pratica stessa diventa realizzazione. E’ quello che speravamo di ottenere attraverso la pratica. Ma se non riusciamo a oltrepassare questa difficoltà, o continuiamo a praticare con dolore, con senso di colpa, con sforzo volontaristico, non sentendoci affatto bene e liberati, quindi ci scoraggiamo a un certo punto, oppure smettiamo di praticare. Il punto critico è il punto di accettazione di mushotoku non come un precetto colpevolizzante: non dovete essere egoisti, voler ottenere qualcosa, non è un precetto così. E’ la chiave della liberazione, è attraverso la realizzazione di questo spirito mushotoku che arriviamo ad armonizzarci col Dharma, cioè la realtà. Nella realtà non c’è niente che si possa ottenere in maniera definitiva, acquisita, e dunque finché abbiamo questo spirito di ottenimento siamo costantemente angosciati, inquieti, perché anche se otteniamo qualcosa, immediatamente abbiamo paura di perderla. Oppure abbiamo ottenuto una piccola cosa, ma non è abbastanza vorremmo di più, e siamo in questo movimento della sofferenza, in questa contraddizione. Quindi, l’insegnamento mushotoku non dovrebbe colpevolizzarvi, farvi dire: ah, sono troppo attaccato, la mia pratica non va bene, e quindi attraverso questo senso di colpa soffrire ancora di più; no, questo non è giusto. Comunque nel Buddhismo non c’è colpa, ci sono solamente degli errori e di fronte agli errori non c’è da avere il senso di colpa, c’è una comprensione da realizzare. Ed è la comprensione che ci fa andare avanti, non il senso di colpa. Ecco quello che volevo dire.

 

 

Domenica 11 maggio 2008, kusen delle 7:00

 

Oggi ci saranno quattro nuovi bodhisattva, e così è un buon giorno. Il bodhisattva è qualcuno che fa il grande voto di venire in aiuto a tutti gli esseri. Questo vuol dire senza discriminazioni. Abitualmente aiutiamo le persone che amiamo; ma il bodhisattva non sceglie, non si concentra ad aiutare le persone che gli stanno simpatiche, ma tutti gli esseri senza distinzione, poiché lo spirito del bodhisattva è fondato sulla pratica di zazen, e in zazen si abbandona lo spirito che preferisce, che ama questo, non ama quello, che passa il suo tempo a discriminare. E così lo spirito del bodhisattva è animato dalla vera compassione. Fa il voto di aiutare tutti gli esseri senza aspettarsi delle ricompense, dei ringraziamenti, e nemmeno dei meriti personali.

La compassione del bodhisattva è il vero amore, che proviene dalla coscienza vasta, che va al di là della separazione tra sé e gli altri. Nell’amore ordinario c’è sempre l’io e l’altro; e persino nell’amore spirituale, per esempio nell’amore di Dio c’è sempre la creatura e il suo creatore, e tra i due c’è una grande differenza. Ma la pratica di zazen ci mette in contatto con quello che c’è di più universale in noi, con quello che condividiamo con tutti gli esseri, che chiamiamo qualche volta ‘natura di buddha’.

Quando facciamo l’esperienza di questa ‘natura di buddha’, entriamo in contatto con lo spirito che non crea più separazioni; di fronte all’altro diventiamo l’altro, di fronte alla montagna diventiamo la montagna, di fronte a un bambino diventiamo questo bambino, davanti a un malato diventiamo questo malato, davanti al Buddha diventiamo Buddha. Ma Buddha esiste dappertutto, in tutti gli esseri, e così possiamo inchinarci davanti a tutti gli esseri in gassho.

Certo, ci sono tanti modi per aiutare gli esseri, per esempio inviando soldi a un villaggio africano come è stato proposto ieri per dare da mangiare, per aiutare l’educazione dei bambini. Certo, è un grande dono, di grande valore. Curare degli ammalati, consolare delle persone nel lutto, ci sono tanti modi di aiutare.

Ma l’aiuto specifico che un bodhisattva può portare agli altri è di aiutarli a potersi aiutare da soli, aiutarli a risolvere da sé le proprie sofferenze. E certo questo implica di aver già fatto per sé l’esperienza. Questo non vuol dire diventare totalmente risvegliati e aver risolto tutti i propri bonno prima di voler aiutare gli altri, ma almeno essere già su questa strada e averne una buona esperienza.

E’ la ragione per la quale i primi due voti del bodhisattva sono completamente legati uno all’altro: per quanto numerosi siano gli esseri faccio il voto di salvarli cioè di salvarli dalla loro sofferenza; e per numerosi che siano gli attaccamenti, le cause di sofferenza, faccio il voto di risolverli.

Un bodhisattva non si sforza di risolvere le proprie sofferenze solamente per il suo benessere. Ma ogni volta che si libera lui stesso da un bonno aumenta la propria capacità di aiutare gli altri, e diventa lui stesso un esempio incoraggiante per gli altri. Allora diciamo spesso che un bodhisattva fa il voto di far passare gli altri prima di sé sulla riva del nirvana. Allora ci immaginiamo che il bodhisattva si sacrifica per gli altri, ma qui ci sono più errori: credere che il nirvana sia uno stato di estinzione totale nel quale scompariamo, mentre il nirvana è solamente qui e ora l’estinzione dell’avidità, dell’odio e dell’ignoranza.

Il nirvana si realizza in ogni pratica e principalmente nella pratica del dono e della compassione. Dunque l’azione del bodhisattva di aiutare tutti gli esseri, è la realizzazione del nirvana qui e ora, ed è a partire da questa realizzazione che il bodhisattva può aiutare gli altri.

Spesso i voti del bodhisattva appaiono estremi: risolvere tutte le cause di sofferenza, aiutare tutti gli esseri, realizzare tutti gli insegnamenti, realizzare il più grande risveglio del Buddha; ma nella nostra pratica dello zen questi voti si realizzano modestamente e semplicemente in ogni pratica e in ogni azione della vita quotidiana. Pratichiamo ogni giorno quello che è possibile per noi, senza mai colpevolizzarci di non essere perfetti. Questo implica avere della compassione anche per se stessi e quindi di trattare gli altri come se stessi, e se stessi come gli altri.

Così, non abbiate paura di impegnarvi in questa via del Bodhisattva. E’ il modo migliore di vivere in armonia con quello che siamo in fondo e in realtà, cioè degli esseri collegati con tutti gli esseri. E il mondo attuale ha totalmente bisogno di questa realizzazione.