12-14 OTTOBRE 2007
Sesshin di Ghigo di Prali
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech
Venerdì 12 ottobre 2007, kusen delle 7:00
Durante zazen concentratevi bene sulla postura del vostro corpo. Ben seduti al centro dello zafu, lasciate che il bacino si inclini bene in avanti, in modo che le ginocchia premano bene al suolo, senza fare sforzi muscolari. Rilassate bene il ventre e lasciate che il peso del corpo prema bene sullo zafu. Se siete obbligati a tendere le reni per fare in modo che le ginocchia tocchino il suolo, sarà forse meglio che alziate lo zafu. A partire dalla vita si estende bene la colonna vertebrale rilassando le tensioni delle schiena. Si estende la nuca come se volessimo spingere il cielo con la sommità del capo. Simultaneamente il mento è rientrato e le spalle rilassate. Allora possiamo sentire una forte energia nella nuca, che stimola la vigilanza. Lo sguardo è posato davanti alle nostre ginocchia sul suolo.
E’ inutile chiudere gli occhi per concentrarsi, perché se non vi attaccate agli oggetti della vista davanti a voi, non disturberanno la vostra concentrazione. Allora non c’è bisogno di chiudere gli occhi per non vederli. Al contrario, se chiudete gli occhi, rischiate o di addormentarvi o di cominciare a sognare.
Il viso è disteso e la lingua contro il palato. Se vi concentrate bene sul contatto della lingua contro il palato, questo vi aiuterà a calmare il discorso interiore. La mano sinistra è nella mano destra. I pollici orizzontali, il bordo delle mani in contatto con il basso ventre. In questa posizione le mani non fabbricano nulla e nemmeno afferrano nulla.
Se si porta l’attenzione sulle mani, per esempio sul contatto dei pollici, questo aiuta a realizzare uno spirito che non fabbrica nulla, e soprattutto uno spirito che non si sofferma su nulla. In altre parole, a ritrovare uno spirito fluido che non si identifica con i suoi pensieri, e soprattutto che smette di discriminare.
In zazen lo spirito abbandona ogni giudizio. Non ci preoccupiamo se i pensieri sono buoni o cattivi, veri o falsi. Si osserva l’impermanenza, la vacuità e si lascia andare. Certamente, per concentrarsi in questo modo, c’è bisogno di pensarci; ma una volta che si è entrati in questa concentrazione, bisogna dimenticare l’oggetto di questa concentrazione, cioè dimenticare il corpo e non creare più separazione tra noi stessi, lo spirito che vuole concentrarsi e il corpo come oggetto di concentrazione.
Il modo in cui abbandonare l’attaccamento al corpo è di essere semplicemente attenti alla respirazione. Si inspira ed espira con calma attraverso il naso. Eventualmente, si cerca di andare fino in fondo all’espirazione; e soprattutto, seguiamo la respirazione, siamo attenti alla respirazione. Questo ci riporta continuamente al qui ed ora della pratica, e ogni volta che facciamo ritorno alla respirazione, lasciamo la presa naturalmente da tutti i nostri oggetti di pensiero e attaccamento. Così, la respirazione è il mezzo migliore per restare perfettamente presenti qui e ora per tutto il tempo della pratica, non solo durante zazen: durante la cerimonia, durante la passeggiata, durante il pasto, il samu, il riposo.
Essere ‘uno’ con la respirazione vuol dire essere ‘uno’ con la vita di qui e ora. E così, divenire intimi con lo spirito che si manifesta qui e ora. E’ il senso della sesshin: divenire intimi con lo spirito che non dimora su nulla e che è sempre perfettamente presente.
Venerdì 12 ottobre 2007, kusen delle 11:00
Durante la sesshin, concentrandosi continuamente sui gesti, sulla postura di zazen, così come sulle altre posture della vita quotidiana, ritornando regolarmente all’attenzione sulla respirazione, tutta la nostra agitazione mentale si calma. Lo spirito diventa più chiaro e possiamo divenire intimi con noi stessi.
Quando vogliamo osservare realmente il nostro spirito, ci accorgiamo che questo spirito è inafferrabile; cioè che non è ‘qualcosa’ e che non lo si può definire, non lo si può rinchiudere in nozioni, in concetti e non lo si può vedere.
Tutti i nostri pensieri, le sensazioni, le emozioni che provengono dal nostro spirito e lo spirito stesso, restano nascosti, inafferrabili. Ma invece di rammaricarci per questo, dobbiamo realizzare che è meraviglioso, poiché vuol dire che il nostro autentico spirito è illimitato.
Ed è la stessa cosa per il nostro ego.
Praticare zazen è imparare a conoscere se stessi, ma quando tentiamo di osservare questo ‘sé’, se stessi, non troviamo nulla di afferrabile. Certamente, possiamo osservare i pensieri, le sensazioni, le emozioni, ma il soggetto di queste produzioni mentali resta nascosto, invisibile, non lo si può afferrare attraverso nessun organo di senso. Non è ‘qualcosa’. Il nostro mentale che discrimina non può raggiungerlo. D'altra parte il mentale che discrimina è esso stesso inafferrabile. Quello che possiamo osservare sono delle discriminazioni, ma l’autore delle discriminazioni è inafferrabile. E quando crediamo di averlo afferrato, vuol dire semplicemente che ci siamo attaccati a una discriminazione, a un pensiero e che prendiamo questo pensiero per il nostro vero sé.
La maggior parte delle persone fa così: si identifica con i suoi pensieri, la sua storia, il ricordo della sua storia e ne fa la propria identità. E attraverso questo si rinchiude in questo pensiero. Praticando zazen impariamo ad attraversare questa chiusura e a restituire al nostro spirito la sua vera funzione, di non essere qualcosa di riducibile a un pensiero.
Ed è la stessa cosa per quello che chiamiamo vacuità. Tutti i fenomeni sono vacuità, cioè non hanno sostanza fissa. E nemmeno la vacuità ha sostanza, evidentemente. Non possiamo mai incontrare la vacuità. La vacuità è totalmente vuota, totalmente inafferrabile. Lo spirito che si risveglia a ciò è lo spirito del Buddha. E se cominciamo a voler rinchiudere questo spirito del Buddha in una definizione, esso non è più l’autentico spirito risvegliato, ma diventa una nozione tra le altre.
In zazen, non lasciamo che il nostro spirito fabbrichi tali nozioni. E per questo ritorniamo costantemente alla postura e alla respirazione. Così, ci armonizziamo naturalmente con lo spirito inafferrabile, che permette alla pratica di zazen di essere direttamente la pratica del risveglio, cioè di armonizzazione con l’ordine cosmico, con il Dharma.
A questo proposito, il Maestro Dôgen racconta la storia celebre di Tokusan. Era un erudito specialista del Sutra del Diamante ed era anche un monaco, certo. Nel Sutra del Diamante è detto che l’autentico spirito non si sofferma su nulla. E’ inafferrabile nel passato, nel presente e nel futuro. Allora, un giorno in cui andava a rendere visita al Maestro Ryôtan, si era fermato sul bordo della strada per comprare qualche dolce di riso. La venditrice dei dolci di riso gli chiese: “Che cosa trasportate nel vostro sacco?”. “Trasporto il Sutra del Diamante con tutti i miei commenti”. Allora la vecchia gli disse: “Ho sentito dire che nel Sutra del Diamante lo spirito del passato è inafferrabile, lo spirito del presente è inafferrabile e anche lo spirito del futuro è inafferrabile. Allora, con quale spirito mangerete questi dolci di riso? Ve li venderò solo se rispondete alla mia domanda”. Ma Tokusan con grande vergogna non poté rispondere.
A quel punto egli realizzò che tutti i suoi studi non gli avevano permesso di realizzare autenticamente il risveglio. Aveva ogni tipo di idee sulla vacuità, ma come attualizzarla concretamente nella vita quotidiana, non era capace di farlo. Quando gli facevano domande, cercava dei riferimenti nei libri. Allora, in quel momento, grazie alla vecchia, realizzò che un dolce di riso dipinto non può soddisfare la fame.
Alla fine andò dal Maestro Ryôtan ed ebbe un lungo mondo con lui. Ma attraverso queste discussioni, non riusciva a comprendere. Come cadde la notte, Ryôtan lo rimandò nella sua stanza e gli tese una candela. Quando Tokusan volle prendere la candela, Ryôtan la spense soffiandoci sopra. Ritrovandosi improvvisamente nell’oscurità, Tokusan si risvegliò profondamente. Come se Ryôtan non avesse solo spento la luce della candela, ma anche la luce del suo intelletto. Tutte le nozioni che ingombravano il suo spirito sparirono in un colpo, e si risvegliò intuitivamente, al di là di ogni pensiero.
In zazen, concentrandosi sulla postura e sulla respirazione, la concentrazione stessa di zazen soffia sulla candela del nostro mentale e lascia il posto all’autentica intuizione. Così, durante questa sesshin, ritornate costantemente con l'attenzione al corpo e alla respirazione. Non lasciatevi oscurare dalle vostre complicazioni mentali.
Venerdì 12 ottobre 2007, kusen delle 16:30
Durante zazen, tutti restiamo seduti completamente immobili, ma questo non vuol dire che lo spirito sia completamente immobile. Durante zazen, i pensieri continuano ad apparire; non solamente i pensieri, ma quello che noi chiamiamo pensieri sono anche le sensazioni, le emozioni i desideri. Allora, come fare con questi pensieri? In altre parole, come pensare durante zazen, visto che ci sono dei pensieri? A questa domanda Maestro Yakusan aveva risposto: “Senza pensare”. In altre parole, lasciamo che i pensieri appaiano, ma non ci impegniamo nei pensieri.
Alcuni credono che zazen consista ad arrivare al punto dell'assenza totale di pensieri, cioè diventare come dei pezzi di legno morto, e si rammaricano nel constatare che i pensieri continuino a manifestarsi.
Allora, come seguire la raccomandazione di Yakusan, di pensare senza pensare?
Questo non vuol dire pensare all'assenza del pensare o sforzarsi di non pensare. Non vuol dire fare del non pensiero un oggetto di pensiero.
In questo dialogo, l'espressione di Yakusan ‘senza pensare’ si dice fushiryô.
Shi: è il pensiero, ryô: la misura, la comparazione. Shiryô indica il pensiero che discrimina, che compara, che misura. E quindi fushiryô vuol dire: l'assenza di un tale pensiero.
Vuol dire che in zazen, smettiamo di valutare, comparare, giudicare i pensieri, e quindi smettiamo di attaccarci ai pensieri.
D'altra parte, il monaco che aveva interrogato Yakusan gli aveva chiesto: “Ma come pensate voi a non pensare?”
Yakusan aveva risposto: “Hishiryô”, che ha anche un senso negativo, ma differente da fu. Fu vuol dire: l'assenza, hi vuol dire: al di là.
In altre parole, in zazen ci si astiene dal giudizio, dal pensiero che misura e che compara, non facciamo più delle discriminazioni. Questo vuol dire che non discriminiamo più tra pensiero e non- pensiero. E quindi è il ‘lasciare la presa’ dall'attività di discriminazione che è hishiryô.
Hishiryô permette lo svolgimento dell'attività del pensiero, ma non ci si attacca e neanche si rifiuta, ci si pone a un altro livello, al livello del ‘al di là del pensiero e del non-pensiero’. In altre parole durante zazen si mette a funzionare un'altra coscienza, che vede l'apparire e lo scomparire dei pensieri, così come delle sensazioni, delle emozioni, ma che non si lascia trascinare nel ciclo di queste apparizioni e scomparse; vede globalmente con uno spirito vasto l'apparizione e la scomparsa di tutti i fenomeni mentali, e questo vuol dire realizzare uno spirito vasto, che include tutti gli aspetti, comprese le emozioni di rammarico che possiamo avere nel vedere che le illusioni continuano ad apparire.
In altre parole in zazen, attraverso la concentrazione sul corpo e sulla respirazione, la coscienza si allarga, diventa vasta come l'oceano che può ricevere tutte le acque senza turbarsi. Quando invece lo spirito ordinario è piuttosto come una piccola pozza d'acqua che diventa agitata per un nonnulla. Questa maniera quindi di pensare al di là del pensiero, come del non-pensiero, è veramente l'essenza della trasmissione del risveglio del Buddha. E' il cuore della nostra pratica, cioè l'elemento vitale, ed è a questo che dovremmo tornare sempre per ricaricarci. Non è una questione di energia, ma ricaricarsi è come ritornare alla sorgente.
Venerdì 12 ottobre 2007, mondo
- Allora, prima della domanda avevo una richiesta da fare, se mi era possibile rivolgermi dandovi del tu.
- Oh, sì, sì!
- Grazie! La mia domanda riguarda mushotoku che è un aspetto della pratica di cui penso di avere una comprensione molto superficiale; in conseguenza delle scelte che ho fatto ultimamente, mi sono reso conto di questo aspetto, quindi ti chiedo cos’è realmente mushotoku nella vita di tutti i giorni.
- Non aspettarsi dei benefici o dei profitti personali nella nostra pratica, nella pratica della Via. Ma invece, se siete degli uomini d’affari, se fate del commercio per esempio, è normale voler guadagnare dei soldi, un commerciante che è mushotoku arriva a distribuire tutte le sue merci gratuitamente e questo sarebbe stupido.
Il Maestro Deshimaru insisteva spesso su questo, quando abbiamo una attività economica, allora bisogna concentrarsi completamente sul fatto che questa attività produca dei profitti.
Semplicemente, facendo questo bisogna far attenzione che non si sviluppi uno spirito troppo avido, e comprendere che il vero profitto non è solamente profitto per sé stessi ma anche per i clienti, per i collaboratori, per tutti in definitiva.
Questo riguarda l’aspetto economico, perché ci sono sempre una serie di dubbi quando si pratica zazen e si vive nella società attuale. Allora non potremmo avere nessuna attività professionale che implichi un profitto, un guadagno, ma non si tratta di questo. Si tratta dell’attitudine che abbiamo nella pratica di zazen, nella pratica di gyoji, poiché è una pratica di liberazione e se utilizziamo questa pratica per ottenere qualche cosa - quindi se pratichiamo con un oggetto, con uno scopo - non c’è una liberazione possibile, perché a quel punto siamo prigionieri della nostra avidità; viviamo nella dualità, pratichiamo nella dualità e quindi zazen diventa come una attività economica, cioè investiamo, facciamo uno sforzo per praticare zazen, sperando di trarne un profitto e a quel punto zazen non è più zazen.
Non c’è nessun profitto a praticare zazen poiché il vero merito di zazen non è quello di guadagnare qualche cosa, neanche di guadagnare una rinascita nella terra del Buddha o un migliore karma, ma di liberarsi completamente dello spirito del guadagno e questo non può che realizzarsi che qui e ora.
Non possiamo per esempio avere una pratica con un progetto di diventare mushotoku più tardi.
Mushotoku non può diventare l’oggetto della nostra pratica. E’ solo qui e ora che possiamo vedere apparire per esempio dei pensieri, o dei desideri, o delle intenzioni di ottenere dei meriti, il risveglio, o delle intenzioni di ottenere la liberazione stessa. E nel momento stesso in cui ce ne rendiamo conto bisogna lasciar andare, cioè andare al di là di questo pensiero, vedere che esiste ma non diventare prigionieri di questi pensieri.
E’ naturale avere dei pensieri così: tutti speriamo nel risveglio, nella liberazione, nel satori, di diventare mushotoku, o anche solo speriamo di diventare migliori, una persona migliore.
Tutti questi oggetti ideali che abbiamo la tendenza a inseguire quando percorriamo una via spirituale sono naturali, e in un certo modo possiamo dire che è persino necessario averne perché è questo che ci motiva e che dà un senso alla nostra pratica. E' questo che è delicato, perché per esempio tu desideri diventare mushotoku, vuoi approfondire la comprensione e questo è diventato il tuo oggetto, il tuo scopo. In un certo modo questo è bene, di avere questo oggetto, questo scopo, stimola il tuo spirito di risveglio, di approfondire la Via, ma potrai realizzarlo solamente abbandonandolo.
E questo è hyshiryô. E’ questo cambiamento di livello. Come dicevo prima, durante zazen ci sono dei pensieri, compresi dei pensieri di ottenimento di benessere, di desiderio, o tante cose così.
Non si tratta durante zazen di voler sopprimere questi pensieri e di sentirsi in colpa dicendo: “Ah! Non sono mushotoku, non arrivo a non pensare, i miei pensieri sono cattivi”.
In zazen si tratta di cambiare immediatamente di livello, qui e ora. Cioè di situarsi al di là di tutti i pensieri, al di là di tutti i pensieri di profitto e quindi anche a tutti i pensieri di rifiuto, di odio, in rapporto a questo stato dello spirito di profitto.
Questo vuol dire che siccome non possiamo né restare, né identificarci ai nostri pensieri di desiderio, né attaccarci al non-pensiero, al non desiderio - che sono due cose che si oppongono allo stesso livello: pensiero, non-pensiero, desiderare, non desiderare, spirito di profitto, mushotoku, non profitto, allo stesso livello - vuol dire che se restiamo così siamo sempre nella dualità, nel conflitto interiore.
Allora la cosa migliore è di accettare che in noi ci siano dei pensieri, ma non restare su questi pensieri, cioè ritornare alla respirazione, al corpo e allargare la propria coscienza, non lasciare che la coscienza sia prigioniera dei pensieri. Ci sono i pensieri ma i pensieri sono una piccola cosa, la coscienza è più vasta, e allargare questa coscienza è hyshiryô.
D'accordo?
- D'accordo. Grazie
- Maestro Deshimaru ha spesso detto che hyshiryô e mushotoku sono veramente i due pilastri dello zen, il terzo è shikantaza, la pratica che permette di realizzare questo, cioè la pratica di sedersi, semplicemente sedersi.
Nella pratica non dobbiamo neanche pensare a hyshiryô, mushotoku, dobbiamo assolutamente lasciar cadere tutti i pensieri, compresi questi pensieri, allora lo spirito mushotoku si realizza al di là della nostra volontà personale.
In definitiva anche se non siamo mushotoku la realtà è che non possiamo afferrare nulla, non possiamo trattenere nulla e non possiamo ottenere nulla. In maniera ultima, al fondo.
Possiamo avere l’impressione apparentemente di aver ottenuto qualche cosa, per esempio possiamo avere l’impressione di aver ottenuto la pace dello spirito. “Ah, da quando faccio zazen il mio spirito è in pace!”. Ma può essere che rapidamente qualcosa appare, un conflitto, una critica, qualcuno che è ostile, o una delusione amorosa o non so che cosa, e bruscamente ci accorgiamo che la pace dello spirito è completamente scomparsa, non esiste più.
Quindi in realtà, se vogliamo veramente seguire la Via non abbiamo scelta. Seguire la Via vuol dire vivere in armonia con l’ordine cosmico e nell’ordine cosmico, nel Dharma non c’è veramente nulla che possiamo ottenere definitivamente!
Semplicemente perché tutto è impermanente, senza sostanza, anche il risveglio: un giorno siamo risvegliati e il giorno dopo ricadiamo nelle illusioni. Certo che parliamo di risveglio supremo, di risveglio senza ritorno, ma questo è per i Buddha perfetti e in effetti noi non ne abbiamo veramente l’esperienza da bodhisattva come noi siamo. E i nostri più grandi maestri zen, che erano dei Bodhisattva, sono rimasti nel mondo dei fenomeni e dunque hanno sempre tenuto nel fondo del loro spirito una certa dose di attaccamento e di illusione, anche minima ma comunque un po’ e, quindi anche la possibilità di sperimentare la sofferenza legata all’impermanenza. E non è male continuare ad avere questo perché permette di rimanere in simpatia con gli altri.
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- Un'altra domanda?
- E il nirvana?
- Ci sono dei momenti di nirvana.
Sono i momenti in cui non ci sono più desideri e avidità per alcunché, né dell’odio o dell’avversione per alcunché e ci rendiamo conto che non c’è nessuno che può ottenere alcunché o rifiutare alcunché, e che non c'è nessuno che può entrare nel nirvana e non c’è un nirvana da ottenere.
Allora in quell’istante possiamo dire che il nirvana si realizza. Ma appena pensiamo: “Ah, ho raggiunto il nirvana!”, a quel punto ne siamo già usciti.
- Dunque non esiste relazione tra samsara e nirvana?
- C’è una relazione tra il dorso e il palmo della mano?
- No... ma sono la stessa cosa.
- Sono la stessa cosa ma non del tutto la stessa cosa, sono due versanti della stessa realtà.
Il samsara è il versante della realtà dove siamo animati dal desiderio e dall’odio, il desiderio di ottenere tutto quello che ci fa piacere e di respingere tutto quello che ci disturba. Essere così è il samsara, prendere coscienza di questo e lasciar cadere è il nirvana. Ma non può esserci nirvana senza samsara, non significa niente nirvana senza samsara, non esiste.
Il nirvana è quello che succede quando abbandoniamo ciò che provoca il samsara.
E’ come il fatto che non c’è satori senza illusioni. Satori è prendere coscienza delle illusioni e lasciarle cadere; in assenza di illusioni non può esserci satori.
Allora a quel punto vuol dire essere completamente al di là dei due, e il senso del Buddhismo Mahayana è capire questo, capire questo in pratica, vuol dire smettere di voler praticare per sfuggire il samsara e ottenere il nirvana.
E’ il cuore stesso del Mahayana, non perché sia male voler ottenere il nirvana, non è una questione morale, ma semplicemente perché è un errore di comprensione che rende la realizzazione del Nirvana impossibile. Diciamo che è il Mahayana, ma io non penso che sia specialmente il Mahayana, è il Dharma del Buddha dalle origini, da quando Buddha ha iniziato ad insegnare.
Per esempio nel primo Sutra del Majjma Nikaya il Buddha distingue tre generi di praticanti, cioè tre tipologie di esseri umani. C’è l’essere umano ordinario che pensa alcune cose e si attacca a questi pensieri, e fa un lungo elenco su questo punto. Poi considera le persone che entrano nella pratica della Via e che si sforzano di non attaccarsi a delle nozioni, compreso il non attaccarsi al nirvana.
Poi c’è la terza tipologia di esseri umani, le persone realmente risvegliate che non si sforzano nemmeno di non attaccarsi alle nozioni, che non si sforzano nemmeno di raggiungere il nirvana, semplicemente non creano tali pensieri e non hanno tali desideri, non esistono nella loro mente, nel loro spirito.
Dunque il Buddha Shakyamuni, fin dalle origini ha insegnato il Mahayana, ma siccome la maggioranza dei suoi discepoli non riusciva a comprendere questa dimensione - la maggioranza dei suoi discepoli era al secondo livello, cioè essere nella Via ma con un certo numero di concezioni sul Dharma, sul risveglio e sul nirvana, e soprattutto avevano il desiderio di ottenerli - allora Buddha li incoraggiava. La maggior parte del tempo diceva: “ Sì, sì, bisogna abbandonare il samsara e ottenere il nirvana. Se voi praticate l’Ottuplice sentiero potete ottenere il nirvana!”.
Ma questo è solo un abile mezzo, Shakyamuni era un grande Bodhisattva e utilizzava tutti questi abili mezzi, ma è chiaro che fin che pratichiamo l’Ottuplice Sentiero per raggiungere il nirvana, possiamo sicuramente perfezionarci spiritualmente. E’ molto buono l’Ottuplice Sentiero, va benissimo, ma in ultimo luogo diventa un ostacolo alla vera realizzazione.
In definitiva bisogna essere al di là della Via stessa, al di là di Buddha.
- Grazie.
Sabato 13 ottobre 2007, kusen delle 7:00
Ieri durante il mondo qualcuno ha fatto una domanda su mushotoku. Mushotoku è veramente l’essenza della nostra pratica. Mu, che vuol dire nulla, shotoku profitto, merito. Per approfondire la pratica di mushotoku, cioè per approfondire la nostra pratica di zazen, voglio parlarvi del celebre mondô tra Nangaku e Baso che riguarda il cuore della nostra pratica.
Baso praticava con il suo Maestro Nangaku e aveva ricevuto la sua trasmissione, ma continuava a sedersi sempre in zazen. Un giorno che faceva zazen, il suo maestro gli chiese: “Che cosa hai intenzione di fare seduto in zazen?” e Baso rispose: “Ho intenzione di fare un Buddha”. Allora Nangaku prese una tegola e si mise a lucidarla. Allora Baso chiese: “Cosa state facendo?”. Nangaku rispose: “Lucido questa tegola per farne uno specchio”. Baso chiese: “Come potete produrre uno specchio con una tegola?”. Nangaku allora rispose: “Come puoi fare un Buddha stando seduto in zazen?”. Allora Baso chiese: “Che cosa è giusto?” e Nangaku rispose: “Quando un uomo conduce una carretta, se la carretta non avanza più deve picchiare la carretta oppure il bue?” Baso non rispose.
Allora Nangaku continuò dicendo: “Studi la meditazione seduta oppure il Buddha seduto? Se studi la meditazione seduta, la meditazione seduta non consiste nello stare seduti con calma, se studi il Buddha, il Buddha non ha una forma fissa. Se studi il Buddha seduto, questo è uccidere il Buddha. Se sei attaccato alla forma seduta della postura, non raggiungi il principio”. Ecco il mondo completo.
Che cosa hai intenzione di fare stando seduti in zazen, è una domanda che dobbiamo porci. In altre parole, abbiamo intenzione di voler realizzare qualcos'altro oltre a zazen stesso, oltre a essere solamente seduti? Oppure non ci deve essere nessun' altra intenzione oltre ad essere semplicemente seduti? Dôgen ci raccomanda di comprendere questo profondamente. Piuttosto che amare le rappresentazioni di draghi, dobbiamo preferire i draghi viventi. Le pitture di draghi sono dei draghi immaginari. Come il Buddha immaginario che vogliamo diventare facendo zazen rappresentandoci come sarebbe il Buddha o il Risveglio. Evidentemente è meglio diventare un drago vivente o un Buddha vivente. Ma Dôgen fa notare che anche le rappresentazioni di draghi hanno lo stesso potere dei draghi reali di far piovere. In altre parole diventare un Buddha è inseparabile dall’intenzione di diventare un Buddha. Come la pratica e la realizzazione del risveglio sono inseparabili da bodaishin, dello spirito del risveglio.
Nella pratica di zazen l’intenzione e la realizzazione sono simultanee. Senza intenzione di risvegliarsi non c’è pratica del risveglio e realizzazione. Semplicemente, dobbiamo fare attenzione che la nostra intenzione non ci faccia attaccare ad una visione immaginaria del risveglio. Non ci faccia considerare il risveglio come qualcosa di lontano e ci faccia trascurare ciò che è davanti a noi e quello che è presente in noi, qui e ora in questa pratica.
Infine Dôgen si interroga su cosa significhi fare un Buddha. Vuol dire fare un Buddha con Buddha o fare un Buddha con quello che è già Buddha? In altre parole Buddha è in noi stessi oppure Buddha è all’esterno di noi e dobbiamo pregarlo o raggiungerlo? Oppure fare un Buddha è abbandonare il corpo e lo spirito? Alla fine, tutti questi modi di fare un Buddha sono completamente legati tra di loro, come una liana che si arrotola sul suo supporto. E qualsiasi cosa sia diventare un Buddha, essa è inseparabile dall’intenzione.
Su questo argomento un giorno ho chiesto al Maestro Deshimaru se bodaishin non è contrario a mushotoku. La domanda era proprio questa: “L’intenzione non è contraria a mushotoku?”. E il Maestro Deshimaru mi aveva risposto: “Pratichiamo per tutti gli esseri. Non per ottenere il risveglio per noi stessi, ma dedicando la nostra pratica al risveglio di tutti gli esseri. E questo è anche il senso della cerimonia dopo zazen. Durante la cerimonia esprimiamo la nostra gratitudine a tutti i Buddha e Patriarchi e allo stesso tempo dedichiamo la nostra pratica a tutti gli esseri.”
Sabato 13 ottobre 2007, kusen delle 11:00
Dunque, tornando al mondo in cui il maestro Baso domandò al maestro Nangaku che aveva preso una tegola e aveva cominciato a lucidarla: "Che cosa state facendo?", è evidente che stava lucidando una tegola. Allora, perché chiedergli: che cosa state facendo? Come se adesso volessi chiedere che cosa state facendo. “Beh, sono seduto in zazen”.
Nangaku stava lucidando una tegola, ma nonostante questo Baso gli chiese, "Che cosa state facendo?". Vuol dire che aveva capito che c’era un significato nascosto nell’azione di lucidare la tegola.
Si può dire che è il koan di tutte le nostre attività e anche di tutti i fenomeni. C’è un senso apparente e un senso più profondo. Coloro che seguono la Via devono ricercare questo senso profondo. Ed è così che numerosi monaci si sono risvegliati, sentendo il suono del torrente nella valle, vedendo dei fiori sbocciare in primavera, sentendo una tegola urtare contro un bambù. Molte persone sentono il rumore dei torrenti, vedono i fiori in primavera, ma pochi si risvegliano. Perché pochi cercano il senso profondo dietro i fenomeni. Pochi comprendono che tutti i fenomeni sono koan, cioè l’espressione della natura di Buddha. In altre parole la totale interdipendenza di tutti gli esseri, di tutti i fenomeni e dunque l’assenza di identità propria che chiamiamo vacuità.
E’ quello che fa dire a Dôgen che possiamo:“Vedere il Buddha senza comprendere il Budddha, vedere dei fiumi senza comprendere i fiumi, vedere delle montagne senza comprendere le montagne”.
Supporre che i fenomeni che si manifestano davanti ai nostri occhi non offrano una via d’accesso alla verità, non è studiare la Via del Buddha. Nella domanda di Baso, Che cosa fate?, ‘cosa’ è molto importante. Che cos’è al di là dell’apparenza? I fenomeni, shiki, sono i fenomeni, ma sono ugualmente ku, vacuità. Se non vediamo al di là dell’apparenza, non possiamo assolutamente realizzare la Via del Buddha e risvegliarci al Dharma che esiste in ogni cosa.
Allora Nangaku aveva risposto: “La lucido per farne uno specchio”. Dôgen ci dice è il koan della realizzazione.
Nonostante la tegola sia una tegola e lo specchio sia uno specchio - cioè due cose differenti - se ci interroghiamo sull'azione, sulla pratica di lucidare, realizziamo che in definitiva tutti gli specchi provengono dall’azione di lucidare una tegola, come tutti i Buddha provengono dall’azione di praticare la Via.
Apparentemente ci sono molte differenze tra un essere umano e un Buddha, come tra una tegola e uno specchio. Ma in realtà, siccome tutti gli esseri hanno la natura di Buddha - sia le tegole che gli esseri umani - l’azione di lucidare, quindi la pratica costante, la pratica di gyoji, fa manifestare la natura di Buddha.
Così quando Baso chiese a Nangaku: “Come potete produrre uno specchio lucidando una tegola?” Nangaku rispose: “Come puoi fare un Buddha sedendoti in zazen?”. E’ chiaro che quando siamo in zazen non ci aspettiamo di fare un Buddha, di vedere un Buddha apparire.
Dôgen diceva in effetti: “E’ chiaro che non c’è relazione tra produrre un Buddha ed essere seduti in zazen”. Non ci sono relazioni, significa che produrre un Buddha ed essere seduti in zazen non sono separati. La pratica stessa è Buddha al di là di tutte le dualità e quindi di tutte le relazioni. Al di là anche di tutte le intenzioni. E se non c’è l’intenzione di praticare il risveglio, la natura di Buddha non si realizza mai. Allora bisogna praticare con l’intenzione di divenire un Buddha, poi lasciarsi assorbire dalla pratica senza nessuna intenzione. Non fabbricare più nulla, nemmeno Buddha. Allora la pratica si armonizza da sola con la natura di Buddha. E siccome siamo ‘uno’ con la pratica, diventiamo naturalmente Buddha, ma al di là di tutte le nozioni di Buddha.
Sabato 13 ottobre 2007, mondo
- Come sempre, se avete una domanda non esitate a porla. Per non rovinarvi le ginocchia potete avanzare a metà dello zafuton.
- Hai parlato ieri del "Risveglio completo senza superiori" e sono curiosa di sapere - perché tu hai detto che non era qualcosa che si può incontrare intorno a sé - e dunque vorrei sapere cosa rappresenta per un bodhisattva, la pensione? In rapporto al fatto che per il bodhisattva ciò che conta non è il proprio risveglio, ma quello di tutti.
- In effetti esistono risvegli di ogni tipo. La parola risveglio può generare confusione. Ho già parlato di risveglio in generale. Ne parlerò adesso, rispondendo alla tua domanda e risponderò in un quadro più generale.
Per cominciare, la base della nostra pratica nella scuola zen soto, è di praticare in un modo e in una condizione di spirito tali che la pratica stessa sia vissuta come risveglio. E' la base stessa dello zen di Dôgen: non si pratica zazen come un esercizio che porterà a una sorta di kensho, un'illuminazione improvvisa che sarebbe lo scopo ultimo e lontano della pratica, ma pratichiamo con un spirito mushotoku, dimenticandoci e abbandonandoci totalmente alla pratica, fino a dimenticare la nostra motivazione personale per la quale siamo venuti a zazen, in modo che lo zazen possa essere vissuto in una totale libertà, spogliato da ogni dualità, da ogni intenzione altra che essere seduti in zazen. Questo vuol dire sicuramente abbandonare il modo di funzionamento dell'ego, che è basato sulla discriminazione, e dunque sulla dualità. Diciamo quindi che zazen è risveglio o satori non perché implica una comprensione speciale, ma perché ci fa vivere in armonia col Dharma qui e ora. L'esperienza di vivere in armonia col Dharma, vivere in armonia con la natura di Buddha: questa è la base della nostra pratica, il senso della nostra pratica.
Quindi non bisogna proiettare un'idea di risveglio perfetto da raggiungere più tardi, ma praticare in modo tale che in zazen ci si armonizzi con la nostra vera natura e ci si liberi dalle cause dei bonno e della sofferenza che sono principalmente l'avidità, l'odio e l'ignoranza. Ed è ugualmente la definizione data dal Buddha a proposito del nirvana. Quando rispondeva sul nirvana, diceva: è l'estinzione dell'avidità, dell'odio e dell'ignoranza.
In questo senso lo zazen praticato con la coscienza hishiryo, con la coscienza che smette di discriminare, di misurare, di comparare, e che è veramente in unità con la postura seduta, con la respirazione, col fatto di essere insieme in armonia con gli altri, questo è allo stesso tempo risveglio, satori e nirvana. Ecco, questo è veramente la base: se c'è qualcosa da ricordare sul risveglio per quel che riguarda la nostra pratica, è questo.
Ma tuttavia ci sono altri sensi di risveglio nel buddhismo, e anche nell'insegnamento soto e del Maestro Dôgen. E' il fatto che spesso il risveglio è vissuto come una sorta di rivelazione immediata, quindi un avvenimento e non una pratica continua del risveglio, ma una pratica che a un certo punto, a volte anche dopo la pratica, dà una sorta di illuminazione, di presa di coscienza improvvisa, di comprensione più profonda che sopraggiunge, e che spesso vediamo descritta non solamente nello zen rinzai, ma anche nello Shôbôgenzo del Maestro Dôgen.
Per esempio, pressoché in tutti i capitoli, però per esempio nel capitolo su ‘La forma delle montagne e il suono dei torrenti’, Keisei sanshoku, Dôgen evoca con approvazione questa forma di risveglio. Evoca il risveglio di Sotoba, che ha realizzato il risveglio sentendo il rumore del torrente, o Kyôgen, sentendo una pietra contro il bambu, o di Reiun vedendo i fiori di pesco. E questo è tipicamente kensho, una forma di kensho, cioè una forma di risveglio istantaneo, che può sopraggiungere anche al di fuori della pratica, e che seduce molto gli occidentali che leggono le storie zen e che hanno voglia di realizzare questo. E allora, seguiamo l'insegnamento di Dôgen che parla della pratica stessa come risveglio, e questo ci sembra un po' differente, come una dualità.
Allora, ciò che occorre capire è che questi monaci, per esempio i tre che ho citato prima, tutti questi monaci praticavano intensamente zazen da molto tempo, e dunque il loro risveglio non è avvenuto al di fuori della pratica, semplicemente passeggiando, e così è arrivato il risveglio come un fulmine, ma erano veramente dei monaci che passavano le loro giornate a fare zazen samu zazen samu da molti anni.
Ma anche se la loro pratica era pratica di risveglio, in un certo modo erano monaci che avevano un dubbio, e che non riuscivano ad avere veramente questa fede profonda nella pratica, che fa sì che non si cerchi più niente al di là della pratica stessa, e che si possa veramente vivere la pratica come una pratica di risveglio. E allora si interrogavano sempre su qualcosa che è al di là della pratica che bisogna realizzare, capire, raggiungere, e dunque questo procurava un dubbio doloroso in loro: molti mondo, molte domande. Cos'è Buddha? Cos'è il vero spirito? Cos'è il Dharma?, sempre con l'idea che ci fosse un segreto da qualche parte, qualcosa che sfuggiva loro. E di colpo, in occasione di un fenomeno, come i fenomeni della natura che ho descritto prima: un suono, un fiore, bruscamente cosa succede? Tutti i dubbi di questi monaci spariscono.
E' questo che chiamiamo kensho. E' una forma temporale di risveglio improvvisa che accade in un dato momento e che non è in dualità con lo zen come satori, ma che al contrario permette di accettare veramente la pratica di zazen come satori. Improvvisamente dirsi: fino a questo momento avevo dubitato, ma non ci sono dubbi: è questo, è completamente questo. Non c'è da ricercare al di là della pratica di qui e ora. E' la ragione per la quale molti monaci hanno realizzato il risveglio durante un samu. Kyôgen spazzando un sentiero ha sentito un sasso; pensava sempre che ci fosse qualcosa al di là, ma a un certo punto: “E' questo, è qui e ora, è quello che sto vivendo!”. A condizione di smettere di essere nell'avidità di voler ottenere qualcos'altro da questo che è qui.
E' immo, la realtà così com'è a ogni istante, là dentro completamente. Lasciare cadere questo spirito dualistico. E nel rinzai lo slogan che si è messo in bocca a Bodhidharma ‘realizzare la propria vera natura e diventare Buddha’ è lo scopo dello zen rinzai, ma di fatto queste sono due facce della stessa esperienza: è lo zazen stesso che prepara questa esperienza, ed è questa esperienza che permette di lasciare cadere i dubbi che si hanno su zazen, e di vivere lo zazen come risveglio.
Per esempio Dôgen praticava zazen dall'età di otto anni; giusto dopo la morte di sua madre andò in un tempio, e si è risvegliato alla fine dopo aver praticato il buddhismo Tendai, si è risvegliato nel 1225, aveva venticinque anni, diciassette anni dopo. Durante questi diciassette anni ha fatto zazen, ma pensava sempre che il risveglio fosse un'altra cosa, e a un certo punto ha sentito il Maestro Nyôjô gridare: Shin jin datsu raku, abbandonare corpo e spirito, l'attaccamento a corpo e spirito, e di colpo egli stesso ha realizzato il suo ‘lasciare la presa’, nella pratica. Abbandonare corpo e spirito è stato abbandonare ogni oggetto ed essere giusto là, perfettamente qui. Abbandonare corpo e spirito alla pratica stessa. E non utilizzare il corpo e lo spirito per cercare di raggiungere qualcos'altro. Per lui in quel momento la dualità tra la pratica e il risveglio è completamente caduta, il dubbio è caduto, è diventato completamente unità. Ed è diventato la base dello zen di Dôgen. Dunque queste due forme, il kensho da un lato e shu sho ichi nyo dall'altro, la pratica-risveglio, anche se sembrano differenti di fatto si ricollegano. Penso che il risveglio come avvenimento è la soluzione del dubbio sul fatto che la pratica sia in se stessa risveglio e che ogni istante di pratica è qui e ora una pratica di risveglio.
Allora adesso, il bodhisattva realizza questo, e bisogna aspirare a questo, in ogni caso. Perché è la base stessa a partire dalla quale si possono aiutare gli altri a liberarsi da sé dalla sofferenza, dai loro dubbi, dalle loro illusioni. Ma allora, perché si parla di due cose che sembrano differenti, cioè del risveglio Anuttara Sanmyak Sambodhi, il Risveglio Supremo del Buddha Perfetto, che implicherebbe che questo Buddha arrestasse il ciclo delle sue rinascite per, come dire, entrare tra virgolette nel ‘nirvana’? Questa è una concezione del buddhismo Mahayana che in definitiva non ci riguarda veramente - almeno, a me personalmente non riguarda molto. Fa un po' parte della buddhologia o della teologia, e vuol dire che non dobbiamo limitare la nostra comprensione del risveglio a ciò che possiamo praticare qui e ora, ma al contrario concepire che vi sia una forma di risveglio nella quale non vi è più alcuna traccia di attaccamento e di illusione, mentre il bodhisattva mantiene delle tracce di attaccamento e di illusione.
E soprattutto, la differenza tra bodhisattva e Buddha perfetto è l'onniscienza: il Buddha perfetto nella buddhologia dovrebbe essere onnisciente. Essere onnisciente vuol dire avere una comprensione perfetta, una conoscenza perfetta di tutti i fenomeni. Vuol dire che quel Buddha sarebbe capace di avere una visione chiara del funzionamento di tutto il cosmo, un Super-Einstein, avrebbe capito tutto. Dal microcosmo al macrocosmo, nulla gli sfugge. Ha una visione totale di tutti i fenomeni, della comprensione di tutti i fenomeni. Allora, evidentemente qualcosa di talmente straordinario che un tal Buddha arriverebbe una sola volta in ogni era cosmica, e un'era cosmica è di miliardi di anni, e quindi ciò significa che, anche se fa parte della filosofia buddhista, questo non ci riguarda veramente, almeno a me non riguarda, voi fate come volete.
Ma quello che a me interessa comunque è questa storia di onniscienza. Non di intenderla nel senso di comprensione perfetta di tutti i fenomeni, perché mi pare chiaramente impossibile, ma di avere una comprensione sufficientemente vasta dei fenomeni, e soprattutto dell'essenza dei fenomeni, della vera natura dei fenomeni, per essere in grado di aiutare ogni sorta di esseri, senza limiti. Qualche volta vogliamo aiutare qualcuno e ci sentiamo limitati, sentiamo che non abbiamo i mezzi per aiutare questa persona, perché ha una struttura mentale, una cultura, un approccio, un karma che non comprendiamo. Allora il bodhisattva nella sua evoluzione verso la condizione di Buddha perfetto dotato di onniscienza, deve sviluppare la sua comprensione di tutti i fenomeni, in modo di essere in grado di aiutare tutti gli esseri. E io ne ho avuto una piccola illustrazione con il maestro Deshimaru. Quello che mi colpiva molto di lui era il suo interesse assolutamente enciclopedico. Si interessava a un sacco di cose e non aveva un interesse approfondito ma una conoscenza sufficiente per poter dialogare con tutti i tipi di persone e metterli a loro agio, e comprendere la mentalità, la preoccupazione di differenti tipi di persone. Poteva parlare con un artista, uno scienziato, un medico, un operaio, si sentiva che aveva una visione, una comprensione del mondo che includeva ogni ambito. Allora, non penso che fosse un buddha perfetto, ma mostrava come un bodhisattva sviluppi la propria capacità di aiutare tutti gli esseri attraverso una conoscenza non solo della vacuità, del Dharma, ma anche dei fenomeni, della storia, la psicologia, le scienze, di come il mondo funziona, in maniera tale di poter sempre trovare dove e come il Dharma può essere d'aiuto a proposito di questo. E questo era impressionante. E implicava anche da parte di Deshimaru uno sforzo di lavoro enorme, delle notti bianche e un'attività costante nel tenersi informato sul massimo di cose, e poter passare dai kusen sul Gengjo koan o sull'Hannya Shingyo a studiare le nozioni di neurobiologia per poter parlare col professore Paul Chauchard che è specialista del cervello.
Dunque, questa è un'illustrazione ad un altro livello che ci permette di capire cosa vuol dire diventare onnisciente. Il limite è la conoscenza perfetta, è l'ideale. Ma mostra che c'è una direzione da seguire se si vogliono veramente aiutare gli esseri cioè di interessarsi alla vita, di interessarsi a ogni sorta di cose in maniera da poter fare sempre il legame tra l'esperienza delle persone, dove si trovano e il Dharma. Ecco. E' diventato un teisho.
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- A proposito dei dubbi, sensei, che cos'è la mente? Per esempio esprit, tu ha i tradotto esprit. In italiano si dice esprit e si traduce mente, è il mentale, è diverso.
- Allora, c'è uno spirito, un solo spirito, ma questo spirito può funzionare in differenti modi e dunque è per questo che ci sono molte parole per designare lo spirito sia in occidente che in oriente, e che facciamo delle distinzioni. Ma alla fine lo spirito che è uno è inafferrabile, ed è inafferrabile proprio perché non vi è un solo modo di funzionamento dello spirito.
Lo spirito funziona in maniera differente a seconda dell'interdipendenza. Allora, per esempio, vi è lo spirito che funziona come coscienza. E' semplicemente il fatto elementare di prendere coscienza di qualche cosa: prendere coscienza di un suono, prendere coscienza di un'odore, di una forma. Per esempio quello che succede se si hanno gli occhi chiusi, c'è una percezione e diventiamo coscienti di questo. Questa è una delle funzioni dello spirito, essere coscienti, cioè di potere...non è così semplice.
Si potrebbe dire: è quasi come uno specchio che deve riflettere la realtà esterna. Ma allo stesso tempo non riflettiamo mai la realtà esterna com'è veramente, riflettiamo la realtà esterna attraverso il prisma dei nostri organi di senso, è in più attraverso il prisma del nostro karma. Allora, è qui che possiamo dire che c'è un altro aspetto dello spirito che interviene. E' lo spirito in quanto sub-cosciente, per dirla alla maniera occidentale anche inconscio, che è in qualche modo il ‘granaio’ di tutta l'esperienza passata, della memoria, di tutta l'educazione dei nostri organi di senso, che fa sì che attraverso l'abitudine appena vediamo una forma, non vediamo solo la forma stessa ma la ricostruiamo attraverso la memoria, attraverso la nostra esperienza. E' un secondo aspetto dello spirito. Per esempio nel buddhismo yogacara, è la funzione della coscienza alaya che contiene i semi di tutte le nostre esperienze passate e queste esperienze passate strutturano la nostra coscienza presente.
Ma ci sono anche altre funzioni dello spirito. Quando ci troviamo davanti a una decisione da prendere o un problema da risolvere, allora là è la mente dualista che discrimina, che si mette a riflettere, a pesare, a riflettere alle cause e condizioni e alle conseguenze di quello che stiamo per fare, e questo generalmente viene chiamato ‘il mentale’, in termini occidentali.
Ma c'è anche, per esempio, quando cerchiamo di comprendere il Dharma, riflettiamo profondamente, cerchiamo di capire. Allora, è il mentale? Sì certo, è il mentale, ma è il mentale che è nutrito dall'esperienza della coscienza hishiryo di zazen che cerca di avvicinarsi a una comprensione più profonda. Per esempio, se si studia l'Hannya Shingyo e si cerca di comprendere cosa vuol dire shiki soku ze ku, in quel momento lo spirito funziona ancora in un altra maniera, e allora ci sono differenti modi, e in occidente anche. C'è la coscienza, l'inconscio, ci sono differenti livelli di coscienza.
E quindi non c'è un solo spirito, o meglio, c'è uno spirito che ingloba tutte queste funzioni e che a seconda dei momenti si mette a funzionare nel modo mentale, in un altro momento si mette a funzionare come uno specchio, come una coscienza che riflette, in un altro momento si mette a funzionare nella modalità di hishiryô e cioè non dimorando su nulla.
- E' proprio questo che mi crea confusione, perché secondo il Lankavatara sutra e la scuola dello yogacara sembra che c'è nella mente una coscienza profonda che ha il seme della buddhità, e sembra che è qualcosa di fisico. Poi arriva Hui-neng e il sutra del diamante e il sutra della Prajna paramita che dice: non c'è niente, poi arriva Dôgen che dice: questo spirito, questa mente è Buddha.
- E' vero. Per me sono due approcci differenti della stessa cosa. L'approccio del Sutra del Diamante e dell'Hannya Shingyo è un approccio che si interessa a qual'è la vera natura dei fenomeni e che scopre che tutti i fenomeni non esistono che per interdipendenza e quindi sono vacuità, non hanno sostanza. E quindi è un approccio diretto, rapido, che attraversa, che non si preoccupa di come tutto questo funziona, ma che va all'essenziale. Ed è la ragione per la quale la scuola del risveglio immediato a partire da Enô, ha privilegiato il Sutra del Diamante.
E' vero che il Lankavatara Sutra è un grande sutra, molto complicato che cerca di capire come funziona lo spirito, come può funzionare il risveglio, perché noi ci risvegliamo col nostro proprio spirito. E soprattutto il Lankavatara e la scuola yogacara si interrogano su qual'è il fondamento della realtà: c'è una realtà in sé, o c'è solamente una realtà che la proiezione del proprio spirito? Allora la scuola del Lankavatara e dello yogacara hanno avuto la tendenza a considerare che quello che noi crediamo sia il mondo, la natura, le montagne, quello che ci circonda, la nostra esperienza, in realtà non sia che una proiezione del nostro spirito. In ogni caso la coscienza alaya che contiene le tracce di tutte le nostre esperienze passate e che attraverso queste tracce costruisce un mondo, dei mondi, tre mondi - i tre mondi sono un solo spirito - una specie di film di cui la sorgente è il nostro subcosciente che è il granaio di tutte le nostre esperienze passate. Quindi, l'interesse di questo approccio, è che dà un metodo per lavorare su se stessi, per arrivare a purificare tutti questi semi del karma passato per arrivare ad avere un accesso alla realtà così com'è, cioè alla vacuità. Dunque in entrambi i casi raggiungiamo la vacuità: la vacuità sia perché tutti i fenomeni non esistono che per interdipendenza, e quindi sono vuoti di sostanza - è il Sutra della Prajnaparamita, e l'altro approccio- il Lankavatara e yogacara, tutto è vacuità perché non è che proiezione del nostro spirito, non c'è sostanza. Quindi da una parte si considera l'interdipendenza che fa raggiungere la comprensione della vacuità e dall'altra tutto non è che spirito, proiezione di spirito e dunque anche in questo caso vacuità. E dunque sia in un caso che nell'altro non c'è sostanza. Ma in un caso la realtà ultima è l'interdipendenza, nell'altro è lo spirito.
Possono sembrare due vie parallele, ma in realtà le persone che dicono che tutto è spirito - lo yogacara - non ignorano l'interdipendenza: giustamente lo spirito costruisce il mondo attraverso il risultato di tutte le interdipendenze vissute nel passato. E del resto c'è una scuola che ha cercato di fare una sintesi delle due, nel quarto secolo ha fatto la sintesi di Prajnaparamita e di yogacara, la scuola di Nagarjuna.
Tutto ciò, bisogna dire, sono speculazioni di monaci filosofi che hanno cercato di costruire delle teorie coerenti della loro pratica, e soprattutto per poter discutere con argomenti solidi con i filosofi indù del Vedanta. Perché tutto questo ha un contesto storico, è avvenuto in India nei primi secoli dopo Cristo. E nei primi secoli dopo Cristo c'è una forte reazione dell'induismo che costruisce una filosofia del Vedanta. E quindi i buddhisti erano costantemente provocati nelle discussioni per giustificare la loro visione del mondo e la loro comprensione; ed è per questo che hanno approfondito la scuola yogacara, per poter argomentare.
Quello che io penso è che bisogna chiedersi di quale comprensione abbiamo bisogno noi per praticare. E del resto mi propongo, nel quadro della formazione che voglio sviluppare nell'ABZE è di dare un'istruzione e una comprensione filosofica su queste correnti sufficiente in primo luogo per capire di che cosa si parla quando studiamo lo Shôbôgenzô o gli insegnamenti del sesto patriarca e di tutti i maestri zen, perché tutti i maestri zen erano comunque a conoscenza di queste scuole e di questi sutra. Ma essi avevano l'arte di utilizzarli unicamente con una funzione ‘risvegliante’. Dunque, invece di lanciarsi in grandi spiegazioni teoriche, si esprimevano sotto forma di koan o di teisho molto corti, ma che partivano comunque da un punto di vista: sia il punto di vista idealistico, yogacara, dove tutto è spirito, o dal punto di vista della vacuità e dell'interdipendenza, quindi del Hannya Shingyo, del Sutra del Diamante ecc.
Ma se leggete gli insegnamenti dei maestri zen, troverete le due correnti, queste due correnti di pensiero che si esprimono. Salvo che, invece di esprimerle sotto forma filosofica e teorica sotto forma di concetti argomentati, sono giusto una o due frasi. Per esempio, il maestro a cui prima di morire il suo discepolo domanda: “Qual'è il vostro ultimo insegnamento?” E il maestro risponde: “La vita è un sogno”, e muore. In questa sola frase vi è tutto l'insegnamento del Lankavatara Sutra, ma non farà, prima di morire, un corso di filosofa ai suoi discepoli. La vita è un sogno, ecco un modo di esprimere tutto lo yogacara, e quindi il Sutra del Lankavatara.
Il dialogo tra Bodhidharnma - ed è molto curioso perché quando diciamo Bodhidharma abbiamo detto che è il maestro del Lankavatara, e quando studiamo il suo insegnamento, Il trattato di Bodhidharma e anche i suoi dialoghi, i mondo con i suoi discepoli, non troviamo alcuna traccia del Lankavatara, praticamente nessuna traccia: è Prajnaparamita pura.
Quando per esempio Bodhidharma incontra Eka che gli dice: “Soffro”, lui gli dice: “Mostrami il tuo spirito”. Eka risponde: “Il mio spirito è inafferrabile”. E Bodhidharma dice: “Se hai realizzato fuka toku, lo spirito inafferrabile, tutte le tue sofferenze sono calmate”. E' un insegnamento radicale della Prajnaparamita. Non cerca di scomporre: Ah, è a causa dei semi, della coscienza alaya, devi purificare tutto questo... No: mostrami il tuo spirito. Questa è la maniera zen di recidere tutte le complicazioni: il mio spirito soffre...tra un po' sarete voi che soffrirete: Ohlalà, ma questo mondo è talmente complicato! Non è più un mondo, diventa un teisho, una conferenza. Ma è un argomento che da tanto tempo voglio chiarire per i miei discepoli, perché tutti i maestri zen hanno studiato queste cose, e generalmente noi siamo molto ignoranti. Le hanno studiate, ma allo stesso tempo le hanno sufficientemente comprese attraverso la loro pratica da poter utilizzare questi insegnamenti in modo che siano risveglianti, e non che complichino la mente. Ci fermiamo qui.
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- Ci fermiamo con lui, ma se ci sono altre domande... Allora, adesso smetto con lo stile teisho!
- Questa mattina nella riunione con te abbiamo parlato del fatto che sovente nel gruppo le difficoltà e i conflitti nascono da problemi di comunicazione. Dopo qualche ora sono venuta a conoscenza del fatto che ho provocato una sofferenza a una persona, che è stata molto gentile a venire a parlare con me dopo avene parlato con te. E non è della questione in sé che volevo parlare, ma proprio del fatto che mi sono resa conto ancora di più, che nonostante che io cerchi di essere chiara e sincera con le persone e gentile e diretta, evidentemente non sono ancora capace, perché se provoco ancora reazioni di questo tipo... E la mia domanda è, riflettendo su questo, mi rendo conto, che la chiarezza della comunicazione parte dalla mia bocca, va nell'orecchio dell'altro, e può anche uscire dalla bocca dell'altro, perché con questo amico ne abbiamo parlato e giustamente la sofferenza è anche provocata dal fatto che non mi ha detto subito della difficoltà, e allora io porto questa questione qua perché penso che sia una cosa che succede molto, e allora la questione a te è: perché è così difficile dirsi le cose, da adulti che siamo, e siccome io lavoro molto ultimamente coi bambini, mi rendo conto che per quanto si cerchi di essere chiari, occorre la conferma di ciò che si è detto. Ma con un adulto, non posso sempre chiedere all'altro se veramente ha capito. Insomma, non so come fare.
- E' che ognuno sente ciò che viene detto attraverso il suo filtro personale, e quindi le persone spesso non sentono le parole, ma le interpretano attraverso le loro illusioni, le loro paure, i loro sospetti. Allora ciò vuol dire che ognuno qui deve essere cosciente di ciò, che noi tutti non abbiamo uno spirito puro e trasparente, ma riceviamo le informazioni e le interpretiamo secondo le nostre opinioni, le nostre idee, secondo molte cose. E dunque bisogna essere molto attenti a questo, e procedere per verifiche. E quello che cerco di fare io. Vale a dire che quando ho un dubbio su qualcosa che qualcuno ha fatto, cerco di verificare il più possibile. Ecco, è il miglior rimedio.
Ma bisogna volerlo, cioè voler vedere la verità, ed è una pratica di risveglio; cercare di arrivare al più possibile di trasparenza, di comprensione, dipende dalla volontà di ognuno di noi. Non abbiamo sempre voglia di capire l'altro, qualche volta è più facile giudicarlo, se non corrisponde al nostro karma, per esempio in funzione delle nostre preferenze, opinioni; cercare di capire l'altro qualche volta disturba, vuol dire lasciare la propria posizione e mettersi al posto dell'altro; questo richiede dell'empatia, e non è sempre automatico, ci vuole qualche volta una sforzo. E questo fa parte delle pratiche buddhiste, delle pratiche illimitate.
Allora, c'è questo, e poi c'è una seconda cosa. In un dojo, per il fatto che ci sono tanti ostacoli alla comunicazione, chiara e trasparente, bisogna creare un modo di funzionamento, in particolare per tutto ciò che riguarda la maniera di prendere le decisioni. Bisogna cercare di avere il più possibile di concertazione. E poi, in seguito quando la decisione è presa, comunicarla anche. Perché se le persone non erano presenti quando la decisione è stata presa, oppure erano distratte, preoccupate, o non avevano capito bene cosa si era detto, perché si voleva fare così, è bene fare un piccolo resoconto: nella riunione tenutasi nel tal giorno, alla tale ora si è deciso questo o quello, e metterlo al dojo. Questo è contro la paranoia, le interpretazioni personali. E allo stesso tempo, siamo in una pratica di risveglio e bisogna rendersi conto che tutti siamo un po' paranoici, cioè che tutti interpretiamo un po' le cose in funzione dei nostri desideri e delle nostre avversioni. Allora, fa parte della pratica risolvere questo, ognuno deve cercare di chiarirlo per se stesso. Ma all'interno del sangha dobbiamo creare dei mezzi abili, ed è quello che ho appena spiegato.
- Capisco...
- Ma?
- No, non ma. La persona non ha sbagliato: ha sentito questo, me n'è venuta a parlare e sono contenta che ha potuto parlare di questo. E nel dojo facciamo esattamente come dici tu, facciamo le riunioni, le cose sono approvate per alzata di mano, ci sono i documenti che sono esposti. La questione è su di me, non è sull'altro. La cosa mi ha fatto, in italiano si dice: cascare le braccia.
- Dimmi cos'è successo esattamente, altrimenti è un mondo paranoico, passiamo ai margini della realtà. Cos'è successo, chiaramente?
- E' successo che nel dojo si è presa la decisione di fare la costruzione di un mandala, per aiutare un Lama che è nostro amico, ed è la seconda volta che si fa.
- Ma quando dici: si è presa la decisione, chi ha preso la decisione, come la si è presa?
- Nella riunione che facciamo insieme a tutti. Le persone propongono le cose, per cui io ho proposto questa cosa tempo fa, è stata fatta l'anno scorso e quest'anno si ripete.
- Chi ha partecipato alla decisione allora, molte persone: era la riunione di tutto il sangha, o di monaci e monache?
- Tutte le persone del dojo.
- Tutti i praticanti.
- Per cui tutte le persone erano d'accordo.
- Per fare la cosa, e anche per i mezzi usati?
- Cerchiamo degli aiuti dalle banche, che ci aiutano, e il dojo è il tramite, il denaro entra ed esce.
- Ed era chiaro questo? Che non era il denaro del dojo che doveva servire?
- Io penso di sì, ma è proprio questa la questione, pensavo che fosse chiaro ma non era chiaro. Poi c'è un'altra cosa. Io partecipo a un'organizzazione, di cui ti avevo anche scritto, a proposito di un'iniziativa che ha preso questa organizzazione americana ‘Global peace initiative of women’, ci sarà un congresso a Jaipur l'anno prossimo, e sono stata invitata attraverso il progetto del silenzio coi bimbi, e ne ho parlato, ma si vede non abbastanza, e questo invito implica andare in India a Jaipur, e ho chiesto al dojo se era possibile aiutarmi a pagare il biglietto per andare fino là perché da sola non posso farcela. Insieme a me vengono altre due donne del dojo, che vengono per conto proprio, che si pagano le spese. E quando siamo andate a vedere il biglietto bisognava marcare subito la data, e io non avevo i soldi. Dunque sono andata a parlare con il contabile del dojo e con Lucio, che è il responsabile, e mi hanno detto: se tu hai bisogno, puoi prendere i soldi, poi parliamo nella riunione con tutti, e decidiamo cosa fare.
- Dopo.
- Dunque nella riunione abbiamo parlato di questa cosa dopo pochi giorni, e tutte le persone presenti hanno detto che andava bene così, nessuno ha detto niente. E Lucio ha proposto che il dojo potesse pagare un fuse di metà viaggio, e l'altra metà cercherò qualcuno che me li possa dare.
- E' anche bene domandare
- Per cui ne abbiamo parlato con tutti, tutti hanno detto che andava bene.
- Allora dov'è il problema?
- Una persona che è un amico, un praticante del dojo, non so se una o più persone perché non ho ancora capito bene com'è andata, non sono d'accordo, e non l'hanno detto subito, per cui hanno sofferto anche del fatto di non avermelo detto, tanto è vero che sono venute a parlare con te. Allora la mia domanda è questa: non sono stata chiara per niente, o cos'è successo? Perché non riusciamo a parlarci, è quella la questione.
- Questa persona era alla riunione dove avete parlato.
- Lui oggi è stato molto gentile e chiaro a spiegarmi.
- Può darsi che questo derivi anche dal fatto che tu come anziana monaca e Lucio come responsabile avete una forza tale che a volte le persone non osano dire direttamente che non sono d'accordo. Spesso questo può succedere, e inoltre voi presentate le cose in maniera così bella che come si fa a dire no. Non si osa dire no a un progetto così bello. Però allo stesso tempo forse non si è discusso abbastanza su che interesse ha in rapporto al dojo, non c'è stata sufficientemente discussione per potersi esprimere ed essere veramente d'accordo, ci sono state semplicemente delle persone che non hanno osato dire: non sono d'accordo.
Forse bisogna prendere del tempo su delle cose così, e anche informare su cosa fai esattamente, in modo che le persone si sentano veramente coinvolte. Coinvolgere le persone. Perché ho l'impressione che a un certo punto ci sia stata un po' di precipitazione a causa della faccenda del biglietto, e quindi le cose sono andate in modo un po' troppo veloce. Che le persone siano state messe di fronte al fatto compiuto, di dover accettare, non potevano più rifiutare, non volevano creare problemi. Ma infondo si dicono: ma questa storia forse non è normale. E' delicato.
Bisogna fare molta attenzione sulla maniera in cui si decidono le cose nel dojo. E soprattutto quando si è convinti di aver ragione e che è bene. Perché quando siamo convinti, non immaginiamo nemmeno che qualcuno non possa essere d'accordo. E in queste condizioni, soprattutto se abbiamo l'autorità spirituale, gli altri non osano dire e poi si produce questo. Tutti devono lavorare su questo, tutto ciò che accade nel dojo deve essere un occasione di risveglio. Tu ti devi domandare cos'hai fatto, Lucio anche, la persona che ha avuto il dubbio anche, e forse è l'occasione di trovare un modo di fare affinché nell'avvenire non si riproduca più una situazione così. E questo presuppone che ci sia una fiducia di base ne fatto che tutti hanno una buona volontà.
Perché se supponiamo che ci sono delle persone con uno spirito diabolico nel dojo, allora non possiamo più avere una buona comunicazione. E' anche questo che bisogna chiarire. Bisogna veramente aver fiducia nel bodaishin di ciascuno e allo stesso verificare che sia veramente il bodaishin ad animare le persone, e non il karma. Credo che questo sia il punto più delicato della fiducia. A priori io ho fiducia nella natura di Buddha di ciascuno e mi dico che se le persone vengono in un dojo non è per creare delle noie, per proiettare il loro cattivo karma, per manipolare il potere. Ma spingo questa fiducia fino al punto in cui mi accorgo che può darsi che mi sono sbagliato, perché non bisogna mai essere completamente ingenui. Allora bisogna sempre verificare.
Di fronte a questo tipo di problemi - che generalmente chiamiamo ‘problemi di comunicazione’, li mettiamo dentro in un grande sacco - cercare di non interpretare i fenomeni, le cose che succedono in funzione della nostra visione, e sforzarsi sempre di andare a verificare; dialogare con le persone, guardare come queste persone agiscono all'interno del dojo, con che spirito, se sono persone alle quali possiamo dare fiducia o meno. E tutto questo è bene. Non bisogna considerare questo come un ostacolo alla pratica: è la pratica, fa parte della pratica.
- Abbiamo parlato, e con quella persona ci siamo anche chiariti. E alla fine la conclusione è stata proprio che tutto questo ci farà crescere tutti, non c'è una brutta sensazione.
Domenica 14 ottobre 2007, kusen delle 7:00
Al mattino, durante la cerimonia dopo zazen cantiamo il nome degli antichi Buddha e degli antichi patriarchi. E’ il nostro modo per esprimere la nostra gratitudine verso quelli che ci hanno trasmesso la Via del risveglio attraverso la loro pratica.
Anche se questa trasmissione si è sviluppata nel tempo, quello che è trasmesso è al di là del tempo; anche se ci sono differenze tra i differenti patriarchi, c'è fra di loro qualcosa di comune, di simile; non solamente fra di loro, ma anche fra loro e noi, ed è per questo che la trasmissione può avere luogo, può esistere. Quello che noi condividiamo con loro è quello che chiamiamo ‘lo spirito dei Buddha antichi’.
C’è in ognuno di noi questo ‘spirito dei Buddha antichi’ che chiede di attualizzarsi. Non è qualcosa di antico, ma è al di là dell’antico e del nuovo, e questo non può che realizzarsi nell’eterno presente. Ieri abbiamo parlato dello spirito, lo spirito che è allo stesso tempo unico e che funziona in modi differenti. Quando non crea più separazioni tra antico e nuovo, tra sé e gli altri, tra sé e la natura, le montagne, i fiumi, allora funziona in un modo risvegliato, risvegliato alla realtà della vita senza separazioni, della vita nella quale noi esistiamo solamente in relazione con gli altri.
Il nostro proprio spirito è in realtà inafferrabile semplicemente perché non ci appartiene in proprio, dipende dalle relazioni. E così, nella nostra pratica non c’è solamente il fatto di essere seduti soli davanti a un muro, c’è il fatto di essere seduti insieme; e di condividere la stessa esperienza dell’ultima realtà, e comunicare in questa esperienza, questa comunione che permette di oltrepassare le nostre differenze e le nostre opposizioni. E’ la ragione per la quale il sangha è uno dei tre tesori. E’ la comunità nella quale noi dobbiamo curare le relazioni, poiché noi esistiamo solamente in relazione interdipendente con gli altri e quindi possiamo concentrarci a creare delle buone interdipendenze. E’ il modo migliore per trasformare lo spirito. E per questo abbiamo l’esempio degli antichi Buddha per ispirarci.
Tutta la loro vita non è stata che l’attualizzazione della natura del Buddha che condividono con tutti gli esseri. La differenza con noi è che hanno lasciato a questa natura del Buddha tutto il suo posto, tutto lo spazio, quando noi a volte abbiamo la tendenza a guardarla solo dal buco della serratura. Ma anche il buco della serratura è la natura del Buddha, poiché la natura del Buddha esiste dappertutto.
Alla domanda: “Che cos’è lo spirito originario del Buddha”, il Maestro Daisho aveva risposto: “I muri, le tegole e le pietre”. Quindi vuol dire non qualcosa di speciale o limitato, ma lo spirito che penetra tutte le esistenze.
Ma siccome abbiamo la tendenza a creare incessantemente delle separazioni a causa del nostro mentale, del funzionamento mentale del nostro spirito, allora pratichiamo zazen. Le montagne non hanno bisogno di fare zazen. Sono naturalmente lo ‘spirito dei Buddha antichi’.
Quando pratichiamo zazen, allora possiamo entrare in contatto con questo spirito, essere ricettivi all’insegnamento delle montagne, dei fiumi, del cielo, dei fiori, assolutamente tutte le esistenze. Qui e ora. E questo qui e ora include tutti i tempi, come la nostra pratica di zazen qui e ora include la pratica di tutti i Buddha antichi, cioè è totalmente legata a loro, collegata a quello che l’ha ispirata.
Domenica 14 ottobre 2007, kusen delle 11:00
Durante questi tre giorni di sesshin abbiamo potuto vivere ogni attività in armonia con lo spirito di zazen, e presto ognuno ritornerà alla sua vita quotidiana. Spesso a quel punto siamo nostalgici della sesshin. La sesshin è un momento di pace, di armonia, e abbiamo l'impressione che tornare alla vita quotidiana sia di nuovo un ritorno alle complicazioni, abbiamo la tendenza a opporre sesshin e vita quotidiana. La particolarità della sesshin giustamente è di aiutarci ad abolire tutte le separazioni tra lo spirito di zazen e lo spirito della vita quotidiana. E' anche il senso profondo della pratica della Via. Buddha ha esposto la Via nella Quarta Nobile Verità, su otto aspetti, otto ramificazioni.
Nello zen riassumiamo con l'espressione: kai: il comportamento giusto, jo: la concentrazione, e: la saggezza, che include la compassione. La riunione di questi tre elementi, senza separarli, è il senso della Via di Buddha. Avere un comportamento giusto nella vita quotidiana vuol dire agire con saggezza e compassione, cioè in armonia con la nostra vera natura di Buddha, così come si manifesta nella pratica di zazen, nella meditazione: kai, jo, e .
Il Maestro Deshimaru nei suoi apprezzamenti dei progressi dei discepoli considerava sempre questi tre aspetti: comportamento, concentrazione e saggezza. Non creare delle separazioni tra questi elementi, né tra la pratica e la realizzazione, tra la vita quotidiana e la sesshin.
Un giorno Joshu aveva chiesto al suo maestro Nansen: “Che cos'è la Via?”. E Nansen non gli aveva risposto: l'Ottuplice Sentiero o kai jo e, ma semplicemente: “Lo spirito quotidiano è la Via”, in giapponese: ei jo shin kore do.
Ei vuol dire: semplice oppure liscio, come la superficie dell'acqua quando il vento ha smesso di agitarlo, di creare delle onde. Vuol dire anche essere senza ostacoli, senza complicazioni, oppure ritrovare uno spirito semplice lasciando cadere le contraddizioni del nostro mentale, lasciando cadere l'avidità, l'odio e l'ignoranza, tutto quello che ci avvelena la vita.
Jo vuol dire costante, eterno, quotidiano, ma quotidiano nel senso di quello che si ripete ogni giorno, come il sorgere del sole.
Ei jo shin è lo spirito che manifesta la verità eterna, la verità costante che appare ogni giorno e in ogni circostanza, allo stesso tempo in noi stessi e in tutti i fenomeni che incontriamo.
Vivere in armonia con questo è ei jo shin, e Maestro Deshimaru parlava di condizione normale. Non qualche cosa di speciale, di complicato o lontano, ma quello che si manifesta in ogni istante. Vuol dire che siamo sempre in mezzo alla Via.
Joshu insisteva domandando: “Dobbiamo forse dirigerci verso questo spirito?”, e Nansen aveva risposto: “Se tu vuoi avvicinarti a esso te ne allontani.”
Allora Joshu gli ha domandato: “Se non cerchiamo di avvicinarci, come possiamo sapere che è la Via?”. Nansen rispose: “La Via non appartiene né al sapere né al non sapere. Sapere è un'illusione e non sapere è confusione. E quando realizzi la Via del non dubbio, è come un vuoto illimitato. E come ci potrebbe essere del vero o del falso nella Via?”
Sentendo queste parole, Joshu si risvegliò completamente. E in seguito insegnò sempre a partire da questo spirito quotidiano, che si manifesta in ogni azione e in ogni istante, quando siamo totalmente concentrati, completamente 'uno' con quello che facciamo, 'uno' con quello che siamo in realtà.
Quando gli domandavano: “Che cos'è la Via?”, non faceva neanche un discorso sullo spirito quotidiano. Domandava: “Hai preso la guen mai?” “Sì” . “Allora vai a lavare la tua ciotola”.
E' praticando così che non c'è più differenza tra la sesshin e la vita quotidiana. Ogni azione in ogni istante è l'occasione per armonizzarci con la Via. Tutti i luoghi sono buoni luoghi, luoghi di sesshin: di intimità con il vero spirito, con la verità eterna.
E su questo mondo Maestro Mumon scrisse questo poema: “Centinaia di fiori in primavera, la luna in autunno, la brezza fresca in estate e la neve in inverno. Se non ci sono vento e nuvole nel nostro spirito, allora ogni stagione è una buona stagione, ogni giorno è un buon giorno”.
Traduzione: Margot Sacco
Annotazione: Elena Ciocca, Chiara Pandolfi, Bruno Brugnoli, Andrea Ghisleri, Cristina Mameli