13-15 OTTOBRE 2006

 

Sesshin di Ghigo di Prali

diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

 

Shinjin Gakudô del Maestro Dôgen

 

 

 

Venerdì 13 ottobre 2006, kusen delle 7:00

 

Durante zazen concentratevi bene sulla vostra postura. Inclinate il bacino in avanti in modo da prendere con forza appoggio con le ginocchia sul suolo. Si è seduti sullo zafu come se volessimo che l’ano non tocchi lo zafu. A partire dalla vita, estendiamo bene la colonna vertebrale, la nuca. Il mento è rientrato e le spalle ben rilassate. La mano sinistra è nella mano destra, i pollici orizzontali, il taglio delle mani in contatto col basso ventre. Lo sguardo è posato davanti a sé sul suolo e non si fissa alcun oggetto in particolare. Non chiudiamo gli occhi poiché se non ci attacchiamo agli oggetti della vista, non è necessario isolarci dal mondo esterno per essere concentrati. Siccome lo sguardo non fissa alcun oggetto, diventa vasto come lo spirito che non si attacca a nessun oggetto mentale.

Come non chiudiamo gli occhi, così non si cerca di non pensare. Semplicemente non ci si attacca ai pensieri. Si pensa, come lo raccomanda Dôgen, dalla profondità del non-pensiero, cioè senza utilizzare la propria coscienza personale, senza pensare volontariamente. Allora i pensieri appaiono e ritornano rapidamente a ku, alla vacuità. E se ritornano, allora si può osservare che sono senza sostanza e così non ci si attacca ad essi.

La lingua è posta contro il palato e se ci si concentra sulla sensazione del contatto della lingua contro il palato, questo aiuta a fermare il dialogo interiore. Alla fine non si segue nessun pensiero particolare e si pratica senza intenzione. Anche il modo di fare zazen lo dimentichiamo e si lascia fare a zazen, senza utilizzare il potere della propria volontà, cioè diventiamo totalmente zazen, assorbiti da zazen. Non ci sono più ‘io’ che faccio zazen e ‘zazen’ che è l’oggetto della mia pratica. Quando si pratica così, la pratica stessa diventa risveglio e liberazione. Non è necessario aspettarsi qualcosa al di là della pratica di questo istante. Possiamo ritrovare l’unità della nostra vita con ogni istante. Ma allo stesso tempo non ristagnamo su questa esperienza.

Dopo zazen ci si concentra sui sûtra, sulla cerimonia e poi sulla camminata, sul pasto, sul samu, dimenticando se stessi completamente in ogni pratica. Anche quando ci si riposa, è la continuazione della pratica di gyôjii, la pratica che non si ferma mai e nella quale non esistono separazioni. Il momento della sesshin è un momento privilegiato per sperimentare questo. Ma questa pratica può e deve continuare in ogni aspetto della vita quotidiana.

 

 

Venerdì 13 ottobre 2006, kusen delle 11:00

 

Quando facciamo zazen noi pratichiamo, seguiamo la Via del Buddha. La pratica di zazen non è una pratica personale. Nella vita quotidiana ognuno segue il proprio cammino condizionato dal proprio karma, dai propri bonno, dai propri attaccamenti, da tutti questi condizionamenti. Ognuno vuole affermare la propria personalità, quello che ha di speciale. Ma quando si pratica zazen, seguiamo la Via del Buddha. Non è la Via creata dal Buddha Shakyamuni, ma è la Via che ha lui stesso riscoperto e seguito, una Via antica seguita da tutti i Buddha. Anche se è antica, quando ci si concentra sulla pratica giusta di zazen, essa si realizza esattamente qui e ora, nel nostro corpo e nella nostra mente, al di là dei nostri condizionamenti, nel movimento di lasciare la presa.

All’inizio dello Shinjin Gakudô il Maestro Dôgen dice: “La Via del Buddha non può essere raggiunta senza pratica e, senza studio, essa rimane lontana”.

Poi cita il Maestro Nangaku che diceva: “Non è che non c’è pratica e realizzazione, ma solamente non possono essere contaminate. Non studiare la Via del Buddha è cadere nelle vie errate. Tutti i Buddha hanno sempre praticato la Via del Buddha”. Ciò vuol dire che essere Buddha e praticare la Via del Buddha non sono due cose separate. Risvegliarsi e praticare il risveglio non sono due cose separate. Questo si realizza in zazen. Senza pratica la Via non può essere raggiunta. Ma la Via non è prodotta dalla pratica: la pratica permette di rivelarla, di realizzarla.

Praticare la pratica si dice in giapponese shu gyo shu, che vuol dire allo stesso tempo imparare, studiare, ma anche riparare, ritornare all’originale. Studiare la Via non è studiare qualcosa di esterno a se stessi. Anche se si studiano i sûtra, anche se si studia lo Shôbôgenzô, questo studio ci riporta, ci riconduce a comprendere noi stessi, a comprendere l’essenza della nostra vita. Ma non si tratta di comprendere psicologicamente o intellettualmente, ma di comprendere intimamente, cioè di diventare quella che è la realtà fondamentale della nostra esistenza, di attualizzarla. Non si tratta di capire che io sono in questo modo o in quell’altro. Zazen non è una psicoterapia. E’ capire che tutto quello che ci costituisce - il corpo, le sensazioni, le percezioni, le attività mentali, anche la coscienza stessa - sono totalmente impermanenti, senza sostanza, totalmente interdipendenti dal sistema cosmico. Non possiamo isolarci, non può esserci un ego separato, questo non esiste. Ma la maggior parte delle persone crede a questo ego separato e fa ogni tipo di sforzo per affermare e sostenere questa illusione. Sprecano per questo molto tempo e molte energie. Quando falliscono, si deprimono. Quando si pratica profondamente la Via di zazen, possiamo rapidamente prendere coscienza di questa illusione osservando il funzionamento del nostro corpo e della nostra mente. Dall’istante in cui comprendiamo intimamente, possiamo abbandonare questo attaccamento a questa illusione.

Nello Zen comprendere è realizzare, praticare. Se capiamo che l’ego è un’illusione e se continuiamo a comportarci in maniera egoistica è perché non abbiamo veramente capito. Allora bisogna continuare a praticare, ad approfondire la pratica finché questa comprensione diventa reale e penetra la totalità del corpo e della mente. Quando questo è realizzato, possiamo abbandonare realmente l’attaccamento al corpo e alla mente. E’ l’essenza dello zazen di Dôgen, shinjin datsuraku. Non è uno sviluppo personale, ma al contrario è abbandonare tutto ciò che è personale e realizzare la dimensione universale della nostra esistenza, la vera dimensione religiosa. E’ per questo che non siamo né differenti, né separati da tutti gli esseri. E questa ragione è la natura di Buddha, l’autentico dharma trasmesso da Shakyamuni.

 

 

Venerdì 13 ottobre 2006, mondô

 

- La mia domanda è in relazione a una mia difficoltà a comprendere la differenza tra l’atteggiamento di rinuncia rispetto a un atteggiamento di accettazione.

 

- E’ la stessa cosa, profondamente è la stessa cosa. Per esempio, quello che ho detto prima nel kusen, rinunciare ad afferrare qualcosa, ad ottenere qualcosa attraverso la pratica, è accettare che non c’è nulla di afferrabile e questa rinuncia e questa accettazione sono la stessa cosa, vanno insieme, ed è l’espressione del satori. Non bisogna rimpiangere la rinuncia. Dipende certamente da quello a cui si rinuncia. Se rinunciate a praticare è molto spiacevole. Ma se rinunciate alla vostra avidità, anche il più piccolo degli attaccamenti, se vi rinunciamo, non è un sacrificio. E’ semplicemente l’accettazione che in fondo questo attaccamento è indirizzato ad un oggetto che è inafferrabile, impermanente e che quindi questo attaccamento non fa che creare della sofferenza perché è contrario all’ordine cosmico. Quindi, rinunciare, accettare è armonizzarsi con l’ordine cosmico. Non bisogna voler fare delle differenze. D’accordo? E’ difficile, vero?

 

- Sì, è difficile. E’ difficile solo accettarlo, per quanto mi riguarda.

 

- Perché?

 

- Perché durante zazen, quando il nostro corpo è dolorante, rinunciare ad andare oltre mi è difficile.

 

- Non rinunciare è ancora più difficile.

 

- E accettare la situazione la trovo la situazione più praticabile. E quindi è in questo senso che trovo una differenza.

 

- L’accettazione è la base della rinuncia. Se tu accetti la situazione, il dolore così com’è, tu rinunci a scappare da zazen. La rinuncia è la conseguenza della tua accettazione. L’accettazione è la comprensione, è la conseguenza della comprensione. Non serve a nulla voler fuggire. E’ la risposta profonda dello Zen rispetto al problema della vita e della morte. Non possiamo fuggire dalla vita e dalla morte. E se l’accettiamo, allora questa vita e questa morte diventano nirvâna, qui e ora.

 

- Grazie.

 

* * * * * * * * * *

 

- Praticando zazen, e anche ahimé, con il passare degli anni, mi rendo conto che il mio corpo non mi appartiene. So che non è mio, non lo controllo, è fatto da elementi. Anche se ho un notevole attaccamento ad esso, lo ammetto. Però so che non mi appartiene. Ma i pensieri li sento come una cosa completamente mia. Nascono da me, tornano da me, non riesco a concepirtli come una cosa non mia. Allora mi chiedo, i pensieri da dove vengono?

 

- Appunto, da dove vengono?

 

- Dalle memorie, dai ricordi ..

 

- Da dove vengono le memorie?

 

- Da quello che mi è accaduto in passato.

 

- Quindi questo vuole dire che sei esistito nel passato?

 

- Sì, ero bambino.

 

- Quindi sei esistito in questo corpo, in questo corpo che non ti appartiene.

 

- Sì.

 

- Ma i pensieri sono esattamente la stessa cosa del corpo. Sono anch’essi fatti di elementi condizionati, non c’è differenza.

 

- A volte mi ritrovo ancora a pensare a cose a cui pensavo da bambino e allora mi sento proprio come qualcosa ...

 

- Di permanente, come la tua nascita.

 

- Sì.

 

- Ma è come le montagne. Le montagne ogni anno sono quasi sempre le stesse. Ma in effetti, tra qualche milione di anni esse non esisteranno più. Quindi non è perché pensiamo la stessa cosa trent’anni dopo che il nostro pensiero è permanente. I nostri pensieri sono anch’essi condizionati. E a volte pensiamo a una cosa per così tanto tempo e tutto a un tratto, uno shock, un avvenimento nella nostra vita e cominciamo a pensare a una cosa diversa. E per fortuna è così, altrimenti non potremmo mai risvegliarci. Se pensiamo sempre alle stesse cose alle quali pensavamo a cinque anni, resteremmo sempre attaccati ai giochi. E a volte, del resto, le cose che crediamo permanenti sono solamente una tendenza che resta la stessa. L’oggetto del pensiero cambia, ma la tendenza è la stessa. Ma non vuol dire che la tendenza è permanente. Per esempio, fin dalla nostra nascita abbiamo sempre una tendenza a ricercare ciò che amiamo e a fuggire ciò che non amiamo. E quindi possiamo pensare che questo è costante, il mio ego è così. Ma in effetti non lo è per niente. Tutto cambia.

E io mi chiedo, cosa fa sì che tu ti attacchi a tuoi pensieri?

 

- Non è un attaccamento. Li vedo, li osservo. E’ forse più come un affettuoso ricordo. Come, ad esempio, ‘Guarda, mi piace ancora quella cosa che mi piaceva quando avevo cinque anni...‘

 

- Ah sì, anch’io. Poco fa sono andato a passeggiare, dopo mangiato. Guardavo le montagne e mi sono detto che quando avevo 8 o 9 anni, camminavo tra le montagne e mi piacevano esattamente come ora. Ma questo non vuol dire che il mio ego è permanente.

 

- Però questo gli dà l’illusione.

 

- Eh sì, dà l’illusione. Allora, a partire da questo, che cos’è che fa che ci attacchiamo a quest’illusione? Questo è il punto. Di che cosa abbiamo paura? Io credo che abbiamo fatto molti sforzi, fin dalla nostra nascita, per cercare di dare una certa identità alla nostra vita. Ed era necessario farlo, per differenziarsi, dalla propria madre, dai propri genitori, per imparare ad esistere da soli. E quindi abbiamo imparato a dire “No!”. E’ la prima cosa che i bambini imparano quando cominciano ad affermare il loro ego, “No, non sono d’accordo”. E ci siamo costruiti così, differenziandoci. E di colpo ci siamo attaccati a queste differenze: “Questo è il mio pensiero, la mia specialità. E’ questo che costituisce il mio ego”. E ci piace questo. Ma così ci priviamo di un modo di vedere e di pensare, molto più profondo e molto più soddisfacente. Poco fa parlavamo di rinuncia. E allora crediamo a volte che se rinunciamo ai nostri pensieri, questo sia veramente molto spiacevole perché questi pensieri sono ciò che ci costituisce, “Io penso così e quindi sono così”. Ma non ci rendiamo conto che attaccandoci così ai nostri pensieri, ai pensieri sulla nostra identità, perdiamo completamente il contatto con l’esperienza della vita in unità con tutto l’universo, ci tagliamo fuori, ci chiudiamo. Perdiamo il contatto con la nostra autentica natura di buddha, perché preferiamo i nostri piccoli pensieri e questo è pericoloso. Ed è molto più pericoloso che il rischio di perdere gli stessi pensieri. Quindi credo che anche se abbiamo la tendenza ad attaccarci ad essi come al nostro corpo, e questo è naturale, bisogna anche vedere gli inconvenienti di questo attaccamento, in modo da lasciarli andare, in modo da creare un’apertura verso un’altra visione più vasta. Pensare che i nostri pensieri non sono così giusti, così importanti. Questo permette di aprirsi ad un altro pensiero, un pensiero che può risvegliarci. D’accordo?

 

* * * * * * * * * *

 

- Nella scorsa sesshin hai detto che ci si può sbagliare riguardo alla pratica. Anche in questa sesshin, ritorna lo stesso concetto che si può inquinare ciò che è puro. Quindi, quali sono gli errori da evitare?

 

- Ce ne sono tanti. Ma il principale è di sbagliarsi riguardo alla pratica. Ciò trasformare la pratica in una tecnica per soddisfare il nostro piccolo ego. E’ l’errore di base, fondamentale. Perché se pratichiamo così, allora perdiamo completamente l’occasione di essere liberati dalla pratica di zazen, non facciamo che continuare il karma dell’avidità. Semplicemente cambiamo oggetto. Del resto, questo era l’insegnamento privato del Maestro Deshimaru. Quando eravamo insieme, parlavamo degli errori dei discepoli, dei nostri errori. Egli criticava sempre dicendo: “Voi non siete mushotoku”. Per lui era l’errore fondamentale. E io penso la stessa cosa. Se possiamo risolvere questo errore, allora penso che possiamo risolvere tutti gli altri errori. D’accordo?

 

- Sì, sono d’accordo. Dôgen Zenji diceva che se si pratica con fede, si arriva al risveglio.

 

- Sì, certamente. E’ importante avere fede, avere fiducia. Aver fiducia nella pratica stessa. Essere mushotoku, essere senza oggetto, è l’espressione della fiducia totale nella pratica. E’ infatti così, perché quando abbiamo totalmente fiducia nella pratica stessa, realizziamo che la pratica è perfetta ad ogni istante. Non è necessario aspettarsi qualcosa d’altro dopo. E allora possiamo diventare mushotoku. La pratica diventa una pratica felice. Quidi la fede non è la fede come quando diciamo: “Ah, più tardi otterrò il nirvâna, il risveglio, il satori”. Non è come la fede cristiana che dice che più tardi potremo conquistare il regno dei cieli. La fede è non creare divisioni, qui ed ora. E’ esattamente questo la fede, non dualità, non-due, fu ni, la conclusione dello Shin Jin Mei. E’ questo il vero spirito della fede. E’ questo la non-contaminazione. ‘Contaminazione’ vuol dire separare, separare la pratica e il risveglio. Si vi dimenticate del risveglio e vi concentrate totalmente sulla pratica, la pratica diventa pura. Questa pratica pura è risveglio. E’ la fede realizzata, attualizzata.

 

 

Sabato 14 ottobre 2006, kusen delle 7:00

 

Per praticare zazen si utilizza la concentrazione sulla postura del corpo e sulla respirazione. Il corpo è stabile nella postura e questo aiuta a stabilizzare lo spirito. La respirazione è fluida e questo aiuta a ritrovare uno spirito fluido che non si sofferma su nulla. Quindi, allo stesso tempo uno spirito stabile che non dimora su nulla mostra che ci sono diverse funzioni della mente, diversi aspetti.

Nello Shinjin Gakudô il Maestro Dôgen ci dice che ci sono due approcci per studiare la Via del Buddha: lo studio con la mente e lo studio con il corpo. Studiare con la mente significa studiare con i diversi aspetti della mente, quali la coscienza, le emozioni e l’intelletto o comprensione. Abbiamo spesso la tendenza a considerare che la nostra mente sia più stabile del corpo, più permanente del corpo. Ma se si osserva la propria mente durante zazen, si può vedere fino a che punto essa cambia o fino a che punto è condizionata.

La coscienza è sempre relativa, siamo sempre coscienti di qualcosa. Senza oggetto non c’è più coscienza. Per esempio in zazen siamo coscienti del nostro corpo, delle nostre sensazioni, qualche volta piacevoli, qualche volta dolorose. Siamo coscienti delle nostre percezioni, delle forme intorno a noi, dei suoni, degli odori, degli oggetti mentali. Ciò che chiamiamo coscienza di sé, è in realtà la coscienza di una certa idea che ci si fa di se stessi e questa idea è condizionata dalla nostra storia passata, dall’accumulazione delle nostre esperienze. Ma se vogliamo afferrare la sostanza di ciò, non possiamo trovare nulla di fisso, nulla di indipendente. Certo, ci sono dei semi, una sorta di semi nella coscienza, che chiamiamo la coscienza alaya, che è una specie di granaio che contiene questi semi. A volte questi semi germogliano e producono degli effetti che condizionano il nostro modo di pensare, di agire ora. In zazen tutti questi ricordi, questi condizionamenti passati possono salire in superficie e diventare coscienza. Ma osservando in questo modo la nostra mente, possiamo certamente dirci che tutti questi oggetti mentali che sorgono sono ‘io’, ciò che fa di me una persona diversa dagli altri. E per la maggior parte del tempo ci fermiamo qui, a questa coscienza di sé come di un individuo separato, differente e alla fine solitario nella sua differenza.

In zazen, grazie alla concentrazione sulla postura del corpo e sulla respirazione, non ci si attacca a questi oggetti mentali, non ci si sofferma su di essi, non ci si identifica con essi, ma si realizza la stessa esperienza del Maestro Tosan: “Queste immagini, questi pensieri sono me, ma io non sono questi pensieri”, poiché la coscienza che osserva è sempre al di là degli oggetti. Essa è hishiryô, al di là di tutti i pensieri, ma non totalmente separata dai pensieri, allo stesso modo in cui ku, la vacuità non è totalmente separata, non è mai separata dai fenomeni.

Restare in contatto con i fenomeni che costituiscono la nostra esistenza, osservarli, permette di capire ciò che causa la sofferenza. E osservare la loro vacuità, e non attaccarsi ad essi, permette di liberarsi, in questo movimento del lasciare la presa, datsuraku. Allora si diventa più disponibili, più aperti agli altri. E l’altra funzione importante della mente, cioè il sentimento, l’empatia, può funzionare pienamente. Meglio comprendiamo noi stessi e meglio possiamo comprendere gli altri. Più ci distacchiamo da noi stessi, più possiamo aiutare gli altri a realizzare questo distacco, poiché in fondo noi non siamo né differenti né separati dagli altri. Ecco perché ogni volta che uno tra di noi si risveglia, questo risveglio contribuisce al risveglio degli altri.

E’ questo che fa il valore del sangha, che fa sì che la pratica insieme sia un autentico tesoro. Spero che voi possiate sentirlo durante questa sesshin.

 

 

Sabato 14 ottobre 2006, kusen delle 11:00

 

Quando si pratica zazen, si pratica con la totalità del proprio corpo e della propria mente. Tutto il corpo e tutta la mente sono completamente immersi nella pratica di zazen, assorbiti da zazen. Se si osserva la mente con la quale pratichiamo, ci accorgiamo che questa mente è inafferrabile, shin fu kato ku. Questo non vuol dire che la mente non esiste. Vuol dire che ha diverse funzioni, diversi modi di funzionare e tutti questi modi di funzionare devono partecipare allo zazen e alla pratica della Via nella vita quotidiana.

Il Maestro Dôgen riassumeva questi tre aspetti della mente parlando della coscienza, dell’emozione o dei sentimenti e anche dell’intelletto e della comprensione. Questi tre aspetti della mente devono partecipare alla nostra pratica della Via, la coscienza cercando di essere il più possibile perfettamente cosciente di ciò che è presente, sia in noi stessi, di quello che succede nel nostro corpo, le nostre percezioni, le nostre sensazioni, ma allo stesso tempo essendo coscienti di quello che succede intorno a noi. La concentrazione dello Zen non è una concentrazione esclusiva. Nello stesso momento in cui siamo concentrati su qualche cosa, abbiamo anche coscienza dell’ambiente, di quello che succede intorno a noi. Questo vuol dire, per esempio, nella vita quotidiana, durante il samu, non solo concentrarsi sulla propria azione ma essere anche attenti agli altri. Anche, per esempio, durante la cerimonia. Siamo concentrati a cantare, ma nello stesso tempo siamo pienamente coscienti della presenza degli altri e ci armonizziamo con loro. Allo stesso tempo soli e completamente insieme. Ma per fare questo, bisogna che la coscienza non resti attaccata a qualcosa. Se per esempio rimaniamo attaccati ad un ricordo, non siamo più attenti al presente. Se siamo attaccati ad una sensazione personale o a una preoccupazione, non possiamo essere aperti agli altri. Allora bisogna rapidamente trovare uno spirito, una coscienza disponibile. Prendere coscienza rapidamente e lasciare la presa, ritornare all’istante.

Dôgen menziona anche il sentimento. Questo è un punto importante che dimentichiamo troppo spesso. Il sentimento non è amare o non amare, ma essere capaci di entrare in sintonia con gli altri a partite dal cuore, capaci di sentire quello che sente l’altro, e così di sviluppare le nostre capacità di compassione. Senza sentire quello che sente l’altro non possiamo mobilitare autenticamente la nostra energia per aiutare l’altro. E’ sentendo intimamente le sofferenze del mondo, legate all’impermanenza, alla malattia, alla vecchiaia, alla morte, che Shakyamuni provò una grande compassione per tutti gli esseri ed è quello che è diventato il ‘suo’ spirito del risveglio, bodaishin, lo spirito del Buddha. Questo dobbiamo comprenderlo, cioè comprendere sia partendo dai nostri sentimenti, ma anche dalla nostra facoltà di capire il principio fondamentale, quale l’impermanenza, l’interdipendenza, il non-sé. Quello che ci spinge a comprendere è il sentimento, la sensibilità, ma il sentimento da solo non è sufficiente poiché porta rapidamente all’attaccamento, ad amare o a non amare, invece di comprendere profondamente, di risvegliarsi.

Così Dôgen continua dicendo: “Dopo essere entrati in sintonia con la Via e aver fatto apparire lo spirito del risveglio, prendete rifugio nella grande Via di Buddha e dei patriarchi e consacratevi completamente alla pratica di bodaishin, dello spirito del risveglio. E anche se non l’avete ancora provato, allora seguite l’esempio dei buddha e dei patriarchi che hanno fatto apparire questo spirito del risveglio nel passato”. Ecco perché li invochiamo, li evochiamo il mattino durante la cerimonia, durante l’Eko. Poiché il loro esempio, il loro gyôjii, sono il migliore stimolante per sviluppare il nostro proprio bodaishin, poiché tutta la loro vita è stata consacrata alla pratica del risveglio. E se confrontiamo la nostra vita con la loro, ci rendiamo conto fino a che punto perdiamo il nostro tempo, il tempo prezioso di questa vita, a inseguire ogni tipo di attività futile, secondaria, invece di ritornare sempre all’essenziale, cioè come risvegliarsi ad ogni istante e come contribuire al risveglio degli altri. Per questo dobbiamo mettere tutte le facoltà della nostra mente al servizio della Via.

 

 

Sabato 14 ottobre 2006, mondō

 

- Fate le vostre domande ad alta voce in modo che le persone che sono in fondo al dojo possano sentire.

 

- Si tratta del comportamento nel dojo. Noi siamo in cinque nel dojo di Roma a dirigere lo zazen e ultimamente si è creata un po’ di confusione. Non seguiamo una regola, è tutto un po’ lasciato a quello che viene in mente ad ognuno di fare. Intanto, non sappiamo mai, se non viene il responsabile dello zazen ...

 

- Se un responsabile dello zazen non viene, non è responsabile. Vuol dire non essere responsabile. Se si deve venire, si viene. Vuol dire rispondere all’impegno che si è presi con il sangha. Questa è la cosa più importante. Se all’ultimo momento si pensa che ci sia qualcos’altro di più piacevole, di più importante per il proprio piccolo ego, allora non si è responsabili. Questa deve essere la regola numero uno, che tutti devono accettare, altrimenti non è possibile avere cinque responsabili. Sono responsabili solo coloro che accettano questa regola. E questo è vero non solo per il dojo di Roma, è vero per tutti i dojo. E’ anche vero nella vita: quando ci si è impegnati in qualcosa, bisogna seguire il proprio impegno, se no non si è responsabili. E’ la definizione della responsabilità. C’è una sola eccezione e cioè se ci si rende conto di essersi sbagliati. Non parlo di fare zazen, ma per altre cose nella vita. Se ci si rende conto che ci si è impegnati in qualcosa e ci si è sbagliati, se si è fatto un errore, allora non è necessario persistere nell’errore, evidentemente. Vuol dire anche, ed è una questione di saggezza, impegnarsi solamente nelle cose giuste, per quanto possibile. Vuol dire riflettere prima di impegnarsi. Qualcos’altro?

 

- L’altra cosa è che ognuno decide di fare delle cose personali.

 

- Quali cose personali? Parli dell’insegnamento?

 

- No, non solo l’insegnamento. Per esempio, non seguire le regole, non fare sanpaï, non vestire il kesa. Va bene tutto?

 

- No! Il responsabile deve dare l’esempio del comportamento giusto. E’ una regola nel nostro sangha che quando si ha una responsabilità, non solo per dirigere zazen, ma per essere pilier, per essere shusso, ino, si indossa il kesa. Anche se non se ne ha uno personale, si indossa il kesa. Perché in quel momento non siamo più noi stessi, ma siamo in quella posizione come trasmettitori del dharma del buddha. Non siamo noi, me stesso, l’ego. Il kesa è il simbolo di questa trasmissione al di là dell’ego. Ed è così che bisogna essere, al di là della propria personalità, del proprio piccolo ego. Quindi, se qualcosa non è chiaro, bisogna chiarire le regole. Quindi, è certamente necessario venire quando ci si è impegnati. Ovviamente può succedere qualcosa di grave che impedisce di venire. Allora, se si tratta veramente di qualcosa di grave, di serio, di molto serio, in questo caso bisogna chiedere a qualcun’altro se può venire. Non dire: “Va beh, troveranno una soluzione loro, non fa niente”. Non bisogna pensare “Non fa niente”.

Poi, portare il kesa. Sì, è importante. Ci può essere il caso in cui sia impossibile, in cui non si trova un kesa. Certamente in questo caso si indosserà un rakusu. Per quanto possibile, è meglio. Per esempio, in un gruppo che comincia, come loro, in Puglia, non c’è affatto un kesa. Per forza metteranno un rakusu. Va bene il rakusu. Se non ci sono altre possibilità. Qualcos’altro?

 

- No. Grazie.

 

- E’ anche importante quello che si dice, quando si parla nel dojo per insegnare. Secondo me nel dojo di Roma siete tutti nella fase in cui dovreste fare solo la lettura. Scegliere bene il tema, il testo dell’insegnamento, per quanto possibile del Maestro Deshimaru o di un godo e studiarlo profondamente prima per esserne impregnati e non leggerlo meccanicamente ma con il cuore, con comprensione. Ecco. E farli corti. Questi sono i principi di base. Vuol dire che anche il silenzio va bene. Ma a volte si può essere attaccati alla parola e non è bene voler parlare troppo. Ma altri, a volte, sono troppo attaccati al silenzio e questo non è neppure bene. Buddha aveva criticato le persone che facevano le sesshin in silenzio. Egli diceva che nel silenzio non può uscire alcuna saggezza. Non va bene attaccarsi troppo al silenzio. E troppe parole non vanno neppure bene. Bisogna trovare la via di mezzo.

 

* * * * * * * * * *

 

- E’ forse un po’ la continuazione di questa domanda. E’ a proposito della benevolenza fra di noi, nel sangha, fra i fratelli monaci e monache. Sento che passano gli anni, veniamo in sesshin, cerchiamo di venire in sesshin, cerchiamo di studiare, di ascoltare i tuoi insegnamenti e ascoltiamo degli insegnamenti molto profondi. E’ vero, accetto che il sangha è umano. Ho avuto in passato un ideale molto romantico..

 

- Idealista.

 

- Sì. Ma un po’ dappertutto ci sono problemi, sento uno spirito critico molto forte tra di noi. C’è amore, sento che c’è affetto ma siamo sempre subito pronti a dire: “Ah tu .., ah lui, ..”. In un modo più grossolano ma anche più sottile, per esempio, quando dispieghiamo gli zagu, è veramente molto raro che riusciamo a metterli veramente insieme. Non ci vediamo, non vediamo per esempio che qualcuno che è principiante, un pilier per esempio che ha il kesa e non ne ha l’abitudine, non osa mettersi in prima fila.

 

- Allora? La domanda.

 

- La domanda è: lo spirito della nonna, perché manca? Perché è così difficile?

 

- E’ vero, ma bisogna osservare il proprio spirito: “Cosa succede?” Penso che la mancanza dello spirito della nonna - forse qualcuno non sa che cos’è lo spirito della nonna: è uno spirito di grande tolleranza, di accettazione delle debolezze e dei limiti di ognuno - derivi dal fatto che non accettiamo i nostri propri limiti e allora, ma non siamo coscienti di questo, proiettiamo le nostre intolleranze, i nostri limiti sugli altri, come se volessimo che gli altri incarnino, realizzino quello che noi non siamo capaci spesso di realizzare. E’ per questo che lo spirito di critica è molto forte in un sangha e a volte tanto più forte quanto le persone che praticano sono idealiste, appunto. Soffrono vedendo che il loro ideale non si realizza. Ma invece di guardare semplicemente se stessi e di cercare di praticare il meglio possibile noi stessi, e accettando anche i propri limiti - non vuol dire diventare compiacenti con se stessi ma dire: “Cosa è possibile fare oggi come progresso, come passo in avanti?” - allora, invece di fare questo, ci guardiamo intorno e critichiamo gli altri. E questa è un’abitudine molto brutta. Ma deve divenire un kôan, cioè qualcosa che ci risveglia. “Perché facciamo questo?”, nel momento in cui lo facciamo. D’accordo?

 

* * * * * * * * * *

 

- Hai notato che c’era qualcun’altro che ha alzato la mano?

 

- No! (risate)

 

- E’ un esempio.

 

- E’ perché ero qui.

 

- Sì, sì. E’ bene guardarsi un po’ intorno.

 

- Sì. Posso?

 

- Sì, sì.

 

- Ho notato ultimamente una tendenza dell’essere umano ...

 

- Parli di te?

 

- No, no, di tutti .. . (risate)

 

-... gli esseri umani.

 

-... che è la tendenza a morire, dopo un po’.

 

- Ah, sì. Di credere che moriranno.

 

- Infatti volevo chiedere: come si può superare quest’idea agghiacciante del non-essere? Non solo del non-essere dopo la morte ma anche del non-essere prima della nascita. E’ terrificante.

 

- Sì, dal punto di vista dell’ego forse. Ma se si accetta questa realtà - perché non è solo un’idea, è una realtà - allora è il contrario del terrore. E’ la fine di tutte le paure. Perché se realizziamo che non c’è nessuno che nasce, allora non c’è nessuno che muore. Non c’è bisogno di preoccuparsi a proposito del morire. Vuol dire che muoriamo qui e ora. Muoriamo qui e ora alla nostra illusione di essere qualche cosa di separato, che esiste come ego, di per se stesso. Allora, è l’occasione di aprirsi alla dimensione infinita della vita, che non comincia con la nascita, che non termina con la morte. E se siamo in unità con questo, allora non c’è più bisogno di avere paura. E’ il risveglio del Buddha, fondamentalmente è questo. Risvegliarsi alla vita al di là dell’ego, questa vita senza nascita e senza morte. Chiamiamo questo vacuità. E a volte c’è confusione sulla vacuità. Perché la vacuità di un’illusione vuol dire il risveglio, non vuol dire il nulla. E’ diverso. Che un’illusione non esista non vuol dire che nulla esiste. Vuol dire che la nostra autentica esistenza è diversa dal modo egotico al quale ci identifichiamo abitualmente.

 

- E’ solo un problema di coscienza, di concetto.

 

- Di coscienza, sì certo. Certamente è un problema di coscienza perché a livello fisico, del nostro corpo, è chiaro che gli elementi del nostro corpo si dissolveranno e ritorneranno alla terra, all’atmosfera se li bruciamo. E’ chiaro. Ma il problema della vita e della morte è un problema di coscienza, non è un problema materiale. Ok?

 

* * * * * * * * * *

 

- Volevo riflettere con lei sul fatto che zazen è un gioco e la pratica della Via sia un gioco.

 

- E’ il clown che fa la domanda?

 

- No, è Alessandro che fa la domanda.

 

- Dire che la pratica della Via è un gioco, vuol dire che l’autentica pratica è mushotoku. Quando si parla di gioco non si pensa al casinò dove si cerca di vincere dei milioni, che trasformano la nostra vita in un casino (risate). E’ un modo per dire in un bordello. Ma il vero gioco è il gioco dei bambini, è un gioco per giocare. Giochiamo per giocare, non per vincere, per un’attività libera. E’ l’espressione di un’attività libera il gioco dei bambini. Ed è la stessa cosa per la pratica di zazen: una pratica liberata da ogni avidità, da ogni spirito di ottenimento e allora diventa come un gioco, gratuito. Ma questo non vuol dire che non ci sono effetti. Spesso le persone pensano: “Ah, mushotoku, allora non serve a niente” ed è infatti questo un punto delicato. Se vogliamo che serva a qualcosa, non serve a niente, perché vuole dire che continuiamo a essere nell’avidità, negli attaccamenti egotici. Ma se pratichiamo con lo spirto che ‘non serve a nulla’ e se accettiamo questa gratuità, allora la pratica diventa una grande liberazione, diventa ‘la’ grande liberazione.

Ecco, è questo la pratica come un gioco, si chiama yu ge, in giapponese, yu ge zanmai. Il samadhi che è come un gioco. D’accordo?

 

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- Nella tradizione cattolica da cui provengo, la sessualità è considerata un ostacolo al cammino evolutivo, spirituale. E’ tollerata come attività procreatrice.

 

- In altre parole, come un’attività animale.

 

- La tradizione zen cosa insegna a questo proposito?

 

- La tradizione zen non ha molto parlato di questo problema, quindi ti posso dare il mio punto di vista, di monaco zen, su questa domanda. Non penso che la sessualità sia un ostacolo, a condizione che non divenga un’ossessione. Per esempio, quando il Buddha diceva che la sessualità, il desiderio sessuale era un ostacolo, era quando parlava a dei monaci che praticavano la meditazione nei ritiri e che cercavano di concentrarsi sulla loro meditazione. Se in quel momento, durante la meditazione, appaiono dei fantasmi sessuali, se possiamo lasciarli passare non è grave, come tutti i bonno, ma se restano, se li afferriamo e se cominciamo a farne un cinema, e ci attacchiamo ad essi, non possiamo più fare zazen, qesto diventa un grande ostacolo. E anche in altri casi può essere un ostacolo. Per esempio, nelle culture tradizionali, antiche, come l’India, per praticare completamente era indispensabile essere celibi, andare in un monastero e allora si poneva veramente il problema della sessualità, soprattutto perché non c’era contraccezione. Quindi se un monaco faceva l’amore, faceva dei figli, non poteva più restare monaco, doveva andare a lavorare. Ma ora la civilizzazione è evoluta in modo tale che si può lavorare durante la giornata, per esempio, e andare al dojo la mattina, la sera, fare le sesshin nei week end. E’ compatibile persino con una vita matrimoniale. Molte persone vivono questo. Anche in Giappone oggi i monaci sono sposati, da un secolo, un secolo e mezzo. Quindi, c’è questo problema.

L’altro aspetto è che la sessualità può essere un ostacolo proprio se è vissuta solamente in un modo animale, proprio nel modo cristiano. Nella sessualità cristiana, che è limitata alla procreazione, vuol dire ridurre la sessualità a un’attività animale, è chiaro. Vuol dire negare l’erotismo, cioè negare l’amore. Ovviamente i preti non dicono questo, ma in effetti vuol dire questo, cioè rifiutare che l’amore possa essere un piacere, una gioia condivisa, un dono reciproco e che il piacere non è un male, a condizione che sia condiviso. Non può essere rubato all’altro e l’altro trattato come un oggetto. In queste condizioni evidentemente, l’amore non è amore. La sessualità vissuta nella violenza, nel non rispetto dell’altro è un ostacolo, perché è ancora la manifestazione dell’avidità, dell’egoismo e questo crea sofferenza, un cattivo karma, che ritorna all’autore del karma, come ogni karma. E allora diventa un ostacolo.

Quindi se non siamo capaci di avere una sessualità armoniosa, se siamo ossessionati, bisogna curarsi, bisogna andare da uno psichiatra, da uno come te! No, scherzo! Bisogna comunque riflettere, cercare di cambiare il propio modo di affrontare la sessualità. In ogni caso non è un male in sé perché è una cosa naturale. Non solo naturale in senso animale ma anche naturale in senso umano perché bisogno di condivisione.

 

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- La mia domanda nasce dopo l’intervento di Ambra. A volte ho l’impressione che possano nascere dei malintesi per come sono riportate le cose.

 

- Per esempio?

 

- Nel caso dell’assenza di quella persona che non è venuta, in quanto responsabile dello zazen.

 

- Sei tu?

 

- No, non sono io. Però mi sento comunque di intervenire. C’è stata una concomitanza di cose, e poi è successo solo una volta. Per una volta che succede una cosa, deve diventare una regola?

 

- Sì sì, certo.

 

- Cioè, non volevo dire una regola. Può diventare un fatto tale da ... Mi spiego meglio: è successo solo una volta, c’è stata una concomitanza di situazioni ..

 

- Ah, se succede solo una volta non è grave, no no, certamente.

 

- Questo intendevo, cioè non è tale da farlo diventare un giudizio che questo gruppo fa così.

 

- No, no.

 

- In questi pochi mesi che stiamo operando, è la prima volta che accade. E allora dico: forse ogni tanto dobbiamo anche riflettere per vedere che se succede più volte allora forse è un’abitudine. Se succede una volta sola, bisognerebbe forse essere un po’ più flessibili.

 

- Sì, certo, una volta non è grave. Ma comunque, per esempio, se si commette un errore, anche una sola volta, questo resta un errore. Per esempio, ai tempi del Buddha all’inizio non c’erano regole, nessuna regola nel sangha. E poi, ogni volta che c’era un errore, uno sbaglio, si diceva: “Non bisogna fare così” e così si stabiliva una regola. Quindi, a partire dagli errori, diventava una regola. Se non ci sono mai errori, non c’è bisogno di regole. E’ quindi proprio a partire dagli errori che possiamo creare delle regole. Quindi bisogna anche considerare l’errore come un’occasione per progredire. Si può progredire solo se si riflette sull’errore. Se diciamo: “Ah, è successo solo una volta, non è grave, non importa”. Se non ne traiamo subito un insegnamento, una regola, non c’è allora modo di progredire. Non può più essere un dojo, diventa il caos.

 

- Sì, il dojo ha delle regole che sevono anche come guida. Però in questo caso erano una concomitanza di cose che può sfuggire qualche volta, anzi una volta.

 

- Non sono sicuro che la persona che ha fatto la domanda sia d’accordo con te. Mettetevi d’accordo insieme perchè mi sembra che ci sia una diversità di interpretazione dei fatti. Fate una riunone tra di voi e mettetevi d’accordo. Io non sono qui per sapere se succede una volta, due volte, tre volte. Quindi, sta a voi creare la saggezza insieme, dovete consultarvi, trovare un accordo su qual è la realtà del dojo. Spesso ognuno ha la tendeza a vedere la realtà dal suo punto di vista e così ci possono essere tanti dojo di Roma quanti sono i praticanti. Ognuno ha la sua visione del dojo e questo crea molti dojo a Roma. E non va bene così. Dovete condividere la vostra visione, mettervi insieme e mettervi d’accordo su una realtà. Il dojo è così. D’accordo? Vuol dire cooperare.

 

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- Può darsi che la mia domanda sia un po’ strana. Spesso diciamo, e l’abbiamo appena detto adesso, che ogni persona interpreta anche la Via in un modo diverso.

 

- E’ una tendenza, una tendenza che deve essere superata.

 

- Nello zen Sôtô, che esiste già da secoli, se facciamo un paragone con il Cristianesimo in cui ci sono diverse congregazioni religiose, è così anche nello zen Soto? Anche qui ci sono diverse congregazioni religiose, come per esempio gli eremiti, francescani, i domenicani?

 

- Non proprio così, ma ci sono diversi stili di pratica. Per esempio, per cominciare ci sono due grandi stili, lo sile Eihi-ji e lo stile Shohi-ji, cioè i due templi principali, e tutti gli altri templi sono collegati sia a Eihi-ji sia a Shohi-ji. E ci sono delle piccole differenze. Poi, ogni tempio ha il proprio maestro e i maestri hanno il loro stile differente. Quindi ci sono templi in cui si fanno molte cerimonie e templi in cui non si fa alcuna cerimonia. Poi ci sono monaci Zen Soto che vivono come degli eremiti, senza tempio.

 

- Ma non c’è un ordine, è tutto insieme?

 

- Sì, si. E tanto più che il Maestro Dôgen rifiutava le differenze e le separazioni settarie. Quindi, se c’erano delle differenti sette all’interno dello zen Soto, questo voleva dire tradire lo spirito del Maestro Dôgen.

 

- E quindi bisogna armonizzare questi diversi modi, nello stesso gruppo?

 

- Sì, e nello Zen Soto è la funzione della Shumucho. Noi la chiamiamo Sotoshu ma è la Shumucho. E’ un’organizzazione creata dei due templi proprio per mantenere l’armonia. Quindi, spesso fanno gli arbitri, nelle difficoltà. Probabilmente nel futuro l’AZI avrà questa funzione: molti sangha, templi differenti ed è necessaria un’organizzazione che armonizzi tutto questo. Ma armonizzare non vuol dire che tutto deve essere esattamente uguale, ci possono essere stili differenti.

 

- E questo significa che lo stesso maestro può integrare discepoli diversi? Non vengono canalizzati?

 

- Cioè?

 

- I francescani con uno e i domenicani con un altro ...

 

- Cioè coloro che appartengono a un ordine?

 

- Ogni maestro ha un miscuglio di tutte queste diverse componenti?

 

- Spero che non si arrivi a questo, cioè la creazione di ordini con regole differenti. Spero che questo non succederà.

 

 

Domenica 15 ottobre 2006, kusen delle 7:00

 

Per praticare zazen, la cosa più importante è realizzare lo spirito del risveglio. Realizzare cioè che risvegliarsi alla verità profonda della nostra esistenza è la cosa più importante della nostra vita. Altrimenti restiamo insoddisfatti, inquieti, non possiamo essere autenticamente felici.

Per realizzare questo spirito del risveglio, bisogna prendere coscienza dell’impermanenza. A volte questo spirito del risveglio appare nel contatto con dei monaci, con delle monache, oppure studiando l’insegnamento del Buddha e dei patriarchi. Ma in realtà questo spirito del risveglio non è provocato da qualcosa di esterno. E’ piuttosto il richiamo della nostra autentica natura. Le circostanze esterne sono delle occasioni per rispondere ad esso e per prestargli attenzione.

In seguito, per mantenere questo spirito del risveglio, bisogna concentrarsi sulla pratica con uno spirito giusto, cioè mushotoku, poiché a quel punto ogni pratica è realizzazione del risveglio. E così il risveglio dura esso stesso, senza fine. Tutti gli altri stati della mente ne conseguono. In particolare il fatto di concentrarsi ad ogni istante, su ogni cosa, con uno spirito non-diviso, senza ego, cioè con uno spirito totalmente sincero, che non fa differenza fra il nobile e il volgare e che ha cura di ogni cosa, compreso lo spegnere la luce quando si lascia una stanza o il bagno. Oppure, andando fino alla fine di ogni samu. E’ ciò che chiamiamo sekishin.

C’è anche quello che chiamiamo lo spirito dei buddha anziani. Sicuramente, esso può essere stimolato studiando i loro insegnamenti, concentrandosi sulla pratica che hanno trasmesso. Infine, questo spirito è al di là del vecchio e del nuovo. E’ quello che un vecchio maestro chiamava “le pietre, le tegole, i muri”, la realtà concreta così come la incontriamo in ogni istante.

Esso è anche lo spirito quotidiano. Non è qualcosa di speciale. E’ semplicemente, come diceva spesso il Maestro Deshimaru, “ritornare alla nostra autentica condizione normale”. E’ vedere che alla fine quello che chiamiamo ‘i tre mondi’, non sono che un solo spirito. Questi ‘tre mondi’ sono i mondi di trasmigrazione. Non sono tanto dei luoghi geografici, ma il mondo del nostro spirito, che è molto spesso il mondo dei desideri. Inoltre, in funzione della nostra meditazione, può diventare il mondo delle forme, delle forme pure al di là dei desideri. E anche, a volte, in una concentrazione molto grande, il mondo senza forma o al di là di tutte le forme.

Comunque sia, tutti questi mondi, tutti questi stati della mente, sono impermanenti. La nostra pratica consiste nel prenderne coscienza e a non soffermarci su di essi, a non attaccarci ad essi. Ecco perché il Maestro Dôgen diceva: “Studiamo la Via utilizziando la mente ma anche abbandonando la mente”. In altre parole, pensando dalla profondità del non-pensiero, non attaccandoci né ai nostri pensieri, né ai nostri stati della mente, né al non-pensiero. Quindi, ciò che chiamiamo hishiryô, il pensiero dalla profondità del non-pensiero, è l’autentico spirito del Buddha, l’autentico spirito del risveglio. E’ ciò che pratichiamo in ogni istatnte di zazen, realizzando uno spirito che non ristagna su nulla, e quindi cessando di oscurare noi stessi.

 

 

Domenica 15 ottobre 2006, kusen delle 11:00

 

Durante zazen ritornate costantemente alla concentrazione sulla vostra postura. Ritornate anche all’attenzione sulla vostra respirazione. Ogni volta che si ritorna alla postura, si abbandonano i pensieri che ingombrano la nostra mente. Si può così ritornare al contatto della nostra autentica natura di buddha, che non possiamo afferrare attraverso il pensiero e che è spesso oscurata dal nostro attaccamento ai nostri pensieri, alle nostre categorie mentali, ma che tuttavia è sempre perfettamente presente, come il sole al di là delle nuvole, come il sole persino nel più profondo di una notte profonda. Così, invece di seguire i nostri pensieri, restiamo attenti alla respirazione e allora ci armonizziamo naturlamente con questa natura di buddha, realizzando un spirito che non ristagna su nulla, che non crea nessuna divisione, nessuna separazione fra la pratica e la realizzazione, fra sé e gli altri, fra sé e la natura, Buddha, Dio. Questa vita senza separazioni è l’autentica fede, che si è trasmessa i shin den shin, da spirito a spirito e da cuore a cuore, fra Buddha e Mahakashyapa, quando il Buddha prese un fiore e lo fece girare fra le sue dita e Mahakashyapa sorrise. Non c’era più ‘uno’ e ‘l’altro’, ma una totale comunione nella stessa percezione della realtà così com’è. E in questa percezione lo spirito sereno del nirvâna è realizzato.

Allo stesso modo è ciò che si è espresso fra Bodhidharma ed Eka quando Eka si è semplicemente prosternato in sanpaï, in silenzio, per esprimere l’essenza della sua comprensione dell’insegnamento del suo maestro. Si tratta anche di una grande trasmissione i shin den shin. Questo è continuato di generazione in generazione fino a noi. Poiché l’autentico i shin den shin è l’autentica comunione di spirito realizzata nel dojo, quando ognuno realizza la coscienza hishiryô, al di là sia del pensiero che del non-pensiero.

Abbiamo praticato questa sesshin nella montagna per tre giorni. Per venire qui avete lasciato la vostra casa, la vostra famiglia, proprio come Shakyamuni aveva lasciato il suo castello per entrare nella montagna. Il Maestro Dôgen ci dice: “E’ lasciare lo spirito dell’illusione, è entrare nello spirito del risveglio, poiché entrare nella montagna in realtà vuol dire pensare senza pensare”. Per entrarvi, noi utilizziamo il nostro pensiero, la nostra volontà, la nostra decisione di venire in sesshin, di seguire la pratica di zazen. Ma quando assumiamo la postura di zazen, zazen diventa esso stesso la grande montagna, il mondo al di là dei nostri pensieri ordinari, il mondo al di là degli attaccamenti umani. Così la nostra coscienza personale, il nostro ego, questo spirito al di là di ogni attaccamento si armonizzano, in una grande fluidità, dove noi non dimoriamo né nel pensiero né nel non-pensiero, cioè al di là di tutti gli attaccamenti.

Quando la nostra mente funziona così, quando la nostra vita è ispirata da questo spirito, allora diveniamo simili al Buddha e ai patriarchi. Ma quando la sesshin è terminata e ritorniamo alla vita quotidiana, rischiamo di essere rapidamente ripresi dal karma, dalla coscienza karmica, cioè di ritornare delle persone del tutto ordinarie. A volte, persino durante la stessa sesshin, passiamo da una coscienza all’altra molto rapidamente, dalla coscienza karmica alla coscienza hishiryô. Quindi Dôgen ci raccomanda di praticare con vigilanza, tenendo gli occhi ben aperti, osservando attentamente e costantemente la nostra coscienza.

Quando continuiamo a praticare la Via così, allora i meriti della pratica si manifestano rapidamente e realizziamo il risveglio inconsciamente e naturalmente.

E’ quello che auguro a ognuno di noi di continuare a realizzare, per il proprio bene e per quello degli altri, senza separazione.

 

 

 

Traduzione:   Margot Sacco

Annotazione:             Paolo Pini, Franca Mondino, Simone Mele, Claudia Ricca, Chiara Pandolfi

Revisione:      Chiara Pandolfi