28-30 APRILE 2006

 

Sesshin di Ghigo di Prali

diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

 

Gakudoyojin-shu del Maestro Dôgen

 

 

 

Venerdì 28 aprile 2006, kusen delle 7:00

 

Durante zazen non lasciatevi distrarre dai pensieri. Portate costantemente la concentrazione sulla postura del corpo. Inclinate bene il bacino in avanti. Prendete con forza appoggio con le ginocchia sul suolo. Rilassate il ventre in modo da sentire bene il peso del corpo premere sullo zafu. Si è seduti sullo zafu come se si volesse che l’ano non tocchi lo zafu. Questo permette di mantenere la giusta inclinazione del bacino in avanti e di sentirsi così ben radicati nella propria postura. Allo stesso tempo in cui si preme la terra con le ginocchia, a partire dalla vita si allunga bene la colonna vertebrale e la nuca come per spingere il cielo con la sommità del capo. In questo modo il corpo è completamente allungato tra il cielo e la terra.

Un punto importante è infatti quello di allungare bene la colonna vertebrale senza irrigidirsi. Il Maestro Deshimaru utilizzava il verbo inglese “stretch”, come nello stretching, che vuol dire allungare, non tendere. Perché infatti in zazen è importante rilassare tutte le tensioni del corpo, mantentendo una postura ben verticale. Quindi si rilassano bene le contrazioni della schiena. Le spalle sono ben abbassate. Il mento è rientrato. Anche il viso è ben rilassato. Lo sguardo è posto davanti a sé sul suolo, non si chiudono gli occhi. Se non ci si attacca agli oggetti della vista, gli oggetti non ci disturbano, non disturbano la concentrazione cioè non ci danno materia a cui pensare. Li si vedono semplicemente così come sono, senza commentarli. La lingua è posta contro il palato. Concentrarsi sulla sensazione della lingua contro il palato, ci permette di calmare il dialogo interiore, poiché quando discutiamo con noi stessi, anche in silenzio, anche senza pronunciare alcuna parola, impercettibilmente la lingua si muove, forma delle parole. Quindi, concentrarsi sulla punta della lingua aiuta a ritrovare il silenzio interiore.

In generale, durante zazen, durante la sesshin, si ritorna alla concentrazione grazie alla concentrazione sul corpo, poiché voler controllare il mentale con il mentale non fa che agitare lo spirito. Al contrario, se ritorniamo costantemente alla concentrazione sul corpo, la calma mentale si stabilisce rapidamente. La mano sinistra è nella mano destra, i pollici orizzontali. Non muovetevi! Soprattutto i piliers, sembrate come dei burattini, come delle marionette.

Il taglio delle mani è in contatto con il basso ventre e portiamo la nostra attenzione sul contatto dei pollici. La lingua è contro il palato, non ci si attacca ad alcuna parola. I pollici orizzontali non afferrano, non fabbricano nulla. Questi sono due punti di concentrazione molto importanti per ritrovare uno spirito libero, disponibile, che non fa nulla di speciale, che non cerca di ottenere uno stato speciale, non pensa a nulla di speciale ma che è totalmente presente a ciò che è in ogni istante, senza soffermarsi su alcunché, perché realizziamo intuitivamente che non c’è nulla da afferrare. E se sentiamo questo e ci armonizziamo con questo, allora la pratica è essa stessa risveglio, cioè armonia con l’ordine cosmico. E’ ciò che veniamo a sperimentare in sesshin. Non solo durante zazen ma in tutte le circostanze della vita quotidiana. Allora siamo disponibili ad armonizzarci con gli altri e tutte le attività diventano come un gioco. La cerimonia, il samu, diventano delle attività libere, che esprimono la libertà interiore, dello spirito che non si sofferma su alcunché e che quindi è pronto ad armonizzarsi con gli altri. Evidentemente, ciò accade nel contesto del sangha, cioè di una comunità che è riunita per ricercare e praticare il risveglio.

 

 

 

Venerdì 28 aprile 2006, kusen delle 11:00

 

Quando pratichiamo zazen ci si sforza di non muoversi, di restare immobili e di ritornare costantemente alla concentrazione sulla postura del corpo. E' la maniera migliore per stabilizzare lo spirito. Quando lo spirito si è calmato diventa più chiaro, cioè, invece di essere trascinato dai fenomeni che sorgono d'istante in istante, lo spirito di zazen li può riflettere come uno specchio, uno specchio che riflette la realtà così com'è, senza scegliere, senza giudicare. Certo, molte cose vengono a riflettersi nello specchio di zazen. Spesso sono le preoccupazioni della vita quotidiana, le sensazioni che proviamo in zazen, sia il benessere, sia talvolta il dolore alle ginocchia. Qualche volta sono delle emozioni di gioia oppure di tristezza, di collera. Qualche volta si pensa al futuro e si fanno dei progetti. Ma in zazen non ci si lascia trascinare da tutte queste fabbricazioni mentali e appena ce ne accorgiamo, le lasciamo passare e ritorniamo alla postura e alla respirazione. A volte è difficile lasciar passare, ci si attacca a questi pensieri. Allora, a quel punto è bene osservare di che cosa si tratta. Non proprio a quel che si pensa o a che cosa si prova, ma qual è la vera natura di questi pensieri, di queste sensazioni, cioè guardare al fondo, in profondità: "Che cos'è?"

Se si osserva attentamente in questo modo, si comprende che la vera natura di tutti i fenomeni che sorgono in zazen, come nella vita quotidiana, hanno solamente la natura di apparire e scomparire istante dopo istante. E’ il punto in comune di tutti i fenomeni: comparsa e scomparsa. E’ ciò che chiamiamo mujo, l'impermanenza.

Guardare dal punto di vista del nostro ego questa nascita e morte che si ripetono è spesso doloroso perché questa impermanenza è contraria ai nostri attaccamenti. E’ ciò che aveva colpito Shakyamuni Buddha. Fu la grande domanda della sua vita: come risolvere il dolore che deriva dall'impermanenza. Ed è ciò che abbiamo chiamato, in seguito, bodaïshin, lo spirito del risveglio, lo spirito del Buddha. E’ a causa di questo che la maggior parte di noi pratica zazen. Così, ciò che è causa di dolore, diventa causa della pratica della Via del risveglio.

In effetti, non pratichiamo zazen semplicemente come una tecnica di benessere, ma per risolvere la radice della sofferenza. E questo non si può realizzare se non risvegliandosi alla realtà così com'è. Risvegliarsi significa vederla e accettarla pienamente.

All'inizio del Gakudoyojin-shu il Maestro Dôgen insiste sulla necessità di far apparire bodaïshin, lo spirito del risveglio, lo spirito della Via. Egli dice infatti: "Anche se questo spirito del risveglio ha ricevuto numerosi nomi, in effetti, questo non si riferisce che a un solo spirito.” Poiché, come diceva il grande patriarca Nagarjuna, “lo spirito che contempla solamente l'impermanenza di questo mondo, di costante comparsa e scomparsa, è ciò che chiamiamo lo spirito del risveglio, lo spirito del Buddha."

Il punto essenziale è che se si contempla veramente l'impermanenza, lo spirito egocentrico non può più apparire e nemmeno certamente lo spirito di profitto e di fama che gli sono connessi. In altre parole, ciò che causa la sofferenza nella maggior parte degli uomini, la visione dell'impermanenza, è anche ciò che ci libera dal nostro egocentrismo e quindi dalla radice di tutte le sofferenze. Questo vuol dire che tutti i nostri oggetti di attaccamento, essendo impermanenti, non possiamo conservarli, possederli. Anche dagli esseri che ci sono più cari, prima o poi, dovremo separarci, che lo vogliamo o no.

Certamente, tutto ciò che costituisce la nostra persona, il nostro corpo, le nostre sensazioni, percezioni, pensieri, la nostra coscienza, tutti questi elementi sono ugualmente, totalmente impermanenti, cioè in perpetua trasformazione, istante dopo istante. In altre parole, il nostro proprio ego non ha alcuna sostanza fissa e tutti i nostri oggetti di desiderio o di rifiuto, sono allo stesso modo così. Di fronte a questo, non possiamo che accettare e lasciare la presa. Qualsiasi altro atteggiamento non sarebbe che illusorio e doloroso. In fondo, praticare zazen è in definitiva la Via per accettare totalmente l’impermanenza, essendo l’essenza stessa della nostra vita, di tutte le vite. E invece di vedere in questo uno scandalo, una cosa orribile, bisogna vedere ciò che è in realtà, cioè la natura di buddha, la vera natura di tutto l’universo, perché se tutte le cose sono impermanenti, ciò vuole dire che nessuna esiste completamente di per se stessa, sola. Tutto ciò che esiste, esiste attraverso delle relazioni. Noi stessi non esistiamo che attraverso le nostre relazioni. Così, invece di essere egocentrici, ci concentriamo sulle relazioni, cioè sull’interdipendenza della nostra vita con tutte le vite, con gli altri e con tutto l’ambiente. In questo modo, lo spirito egoista diminuisce e lo spirito solidale, compassionevole aumenta. Ciò che ci appariva come un destino fatale, è in realtà la grande porta della liberazione e quindi della vita felice. Evidentemente, ciò suppone che cambiamo radicalmente il nostro punto di vista, che adottiamo il punto di vista di zazen, di uno spirito leggero, che non si sofferma su nulla.

 

 

 

Venerdì 28 aprile 2006, kusen delle 16:30

 

Durante zazen non perdete il vostro tempo a seguire i vostri pensieri, perchè questo non porta nessuna saggezza e nessuna liberazione. Non si fa in questo caso che continuare lo spirito ordinario che passa da un pensiero all'altro, come le scimmie da un ramo all'altro di un albero. Osservate semplicemente che tutto quello che sorge di istante in istante in zazen si trasforma e sparisce rapidamente e così potrete impregnarvi della realtà profonda dell'impermanenza. Vedere questo e armonizzarsi con questo è un aspetto importante dello spirito del risveglio e quindi dello spirito del Buddha, poiché questo ci libera dall'attaccamento al nostro ego. Questo attaccamento è la causa di molte sofferenze. Quindi, vedere questo ego com’è in realtà, cioè impermanente, cioè una costruzione fragile che si trasforma continuamente, vedere questo permette di essere meno egotici.

L'altro aspetto importante dello spirito del risveglio, che è ugualmente frutto dell'impermanenza, è di essere coscienti dell'urgenza di praticare e così di evitare di perdere il tempo prezioso che ci è donato. Ricordarsi che dobbiamo morire un giorno, e che questo potrebbe essere domani, è una grande incitazione a concentrarsi ogni giorno sull'essenziale. Così la coscienza dell'impermanenza, invece di deprimerci, stimola l'intensità della nostra vita. Vivere ad ogni istante l'essenziale, armonizzarsi con la Via ad ogni istante, in modo da non rimpiangere nulla quando dovremo morire.

Il terzo aspetto dello spirito del risveglio è di desiderare di condividerlo con gli altri. La pratica urgente della Via non è semplicemente per se stessi, poiché comprendiamo che noi stessi e gli altri non siamo separati e che praticare per sé, semplicemente per sé, solamente per sé, non è la pratica della Via perché, semplicemente, questo ‘sé’ non esiste senza gli altri. E più approfondiamo la pratica, più questa separazione fra sé e gli altri sparisce. Tutti questi sono dei punti non solo importanti, ma essenziali del Dharma del Buddha. Sicuramente avete udito spesso queste parole e, come dice il Maestro Dôgen nella sua seconda raccomandazione del Gakudo, "quando ascoltate il vero Dharma, dovete praticarlo." Altrimenti, vuol dire essere come qualcuno che ha fame e che si accontenta di leggere il menu alla porta del ristorante senza entrare e mangiare. La qualità di un praticante della Via è questa capacità di mettere in pratica il Dharma del Buddha: “appena ascoltato, subito praticato.” Qualche volta si ha l'impressione che alcune persone ascoltino ma che questo non le riguardi veramente. In questo caso, tutti perdono il loro tempo, colui che insegna e colui che ascolta. Quando ascoltate un insegnamento, chiedetevi come lo praticherete e se vi dite “Non ho tanta voglia di praticare questo insegnamento”, allora domandatevi perché. Se non è chiaro per voi, potete fare una domanda al môndo. Il peggio è restare con dei dubbi.

L'insegnamento del Buddha è molto prezioso perché ha come vocazione di liberarci tutti dalle sofferenze e di permetterci di condurre una vita felice, poiché profondamente in armonia con la realtà profonda. Quando si ascolta un insegnamento non si dovrebbe avere che un unico desiderio: di praticarlo, il più velocemente possibile. E questo si ricongiunge alla terza raccomandazione del Maestro Dôgen che dice: "Dovete entrare nella Via del Buddha attraverso la pratica." La Via del Buddha non è una teoria, una spiegazione del mondo, un sistema filosofico, ma piuttosto un modo di vivere. E il Buddha stesso diceva che la realizzazione stessa esiste nella pratica. Insegnava la pratica di zazen e diceva: "Se praticate questo così come ve lo insegno, non potrete non risvegliarvi", non perché la pratica conduce ad un risveglio futuro ma perché la pratica stessa è risveglio. E' un modo di essere ad ogni istante, in armonia con il Dharma.

 

 

 

Venerdì 28 aprile 2006, mondô

 

- Qual è il fine ultimo del samu? Che differenza c’è fra il samu e il lavoro non retribuito che si fa a favore della collettività?

 

- Il punto in comune è che il samu è un servizio reso alla comunità. Un lavoro che si fa non per un profitto personale ma per rendere un servizio alla comunità. La differenza che c’è con un’attività di volontariato è nel modo di farlo. Normalmente il samu deve praticarsi con la stessa concentrazione, con la stessa attenzione con la quale si pratica zazen, come una pratica di meditazione, cioè sforzandosi di essere totalmente ‘uno’ con quello che si fa, con i gesti, nell’azione, in ogni istante. Questo è il primo aspetto del samu. Il secondo aspetto è che è un fuse, un servizio. Sono i due punti importanti.

 

- Quando faccio un samu, per me è importante il buon risultato del samu.

 

- Sì, ma il buon risultato arriva naturalmente se tu sei concentrato su quello che fai. Non vale la pena di pensare al risultato. Se ci chiedono di scopare, facciamo attenzione, scopiamo bene, non lasciamo in giro la polvere. Il risultato è naturalmente buono. E’ come quando pratichiamo zazen. Se siamo veramente concentrati nella pratica, il risultato ...

 

- Ma il risultato non dovrebbe essere importante.

 

- La pratica stessa è realizzazione, in altre parole, il risultato è già nella pratica stessa. Ma il frutto della pratica viene naturalmente, senza aver bisogno di pensarci, senza bisogno di fare un controllo di qualità per verificare che tutto vada bene. Oltre a questo, nella pratica dello zen, non si è perfezionisti. Il risultato del samu non ha bisogno di essere perfetto. E’ come è. Ma se le persone lo fanno con concentrazione, il risultato sarà per forza sufficientemente buono. Se poi si comincia a guardare il risultato del lavoro, a criticare i dettagli dicendo: “Ah, qui c’è qualcosa che non è proprio a posto”, allora in questo caso rischia di diventare una forma di attaccamento, di perversione del samu. Ci si attacca troppo al risultato, alla perfezione. E oltre a questo, vuol dire che ci saranno delle persone che giudicheranno il risultato e questo introduce qualcosa che è completamente al di fuori dello spirito del samu.

Bisogna fare il meglio possibile ed è tutto, non occuparsi del resto. D’accordo? Così il samu è libero, non è una corvée.

 

* * * * * * * * * *

 

- Avete detto che la pratica è in sé realizzazione. Questo perché fa comprendere l’impermanenza delle cose, come si vede nei nostri pensieri.

 

- Non solamente comprendere, ma accettare. Quindi lasciare la presa, abbandonare l’attaccamento. D’accordo?

 

* * * * * * * * * *

 

- Devo fare un preambolo. Io ho notato che la mia pratica non è gratuita, non è totalmente gratuita. Ad essere onesti, anche se poco, però c’è sempre o la ricerca di benessere, di star meglio, oppure di migliorare la pratica. Allora la domanda è questa: cosa si può fare per arrivare ad essere veramente senza scopo?

 

- Il solo modo è di realizzare lo scopo. E’ normale che ci sia uno scopo nella pratica. Il Buddha insegnava la Via che libera dalla sofferenza. E’ normale volersi liberare dalla sofferenza. E’ del tutto normale volersi sentire bene. La questione è: per riuscirci veramente, non bisogna che resti uno scopo lontano, bisogna che ciò divenga qualcosa che si realizza subito. E perché questo si realizzi immediatamente, bisogna concentrarsi totalmente sulla pratica giusta ad ogni istante.

 

* * * * * * * * * *

 

- Quando vado a dormire, sono sempre un bodhisattvâ. Come continua la nostra pratica mentre dormiamo?

 

- Essa continua inconsciamente. Se tu dormi coscientemente, tu non dormi veramente. Dormire è dimenticarsi che si dorme, è dimenticare che si pratica, è tutto dimenticato. Se tu ti dici “Ah, sto dormendo”, tu non dormi veramente. Quindi la pratica di dormire veramente è dimenticare tutto, dimenticare completamente se stessi, dimenticare persino la pratica. Questo permette di addormentarci rapidamente, naturalmente. E se al momento di addormentarti, tu cominci a pensare: “Oh, come essere bodhisattvâ dormendo?”, non ti addormenterai mai, rischi anche di passare delle notti in bianco. E ciò non vale solo per il dormire, ma per tutto. E’ la questione della pratica consapevole e della pratica inconsapevole. Da una parte è normale avere uno scopo, voler realizzare il Dharma, volersi liberare. E’ la stessa cosa della domanda precedente. E questa è certamente una ricerca cosciente, ma questa ricerca cosciente non può portare alla realizzazione senza abbandonare anche la ricerca cosciente. E questo abbandono è solo nella pratica stessa. Quindi, questo vuol dire che quando mangio, mangio e quando dormo, dormo.

 

- Ma diciamo che quando pratichiamo ci sono dei cambiamenti che avvengono inconsciamente, naturalmente.

 

- Quando pratichiamo.

 

- Sì, ma da alcuni anni a questa parte ho visto che è cambiato il mio modo di dormire. Specialmente durante le sesshin. Non mi sembra di dormire così profondamente come dormivo una volta. Mi sembra di dormire ma in uno stato di vigilanza, come quando siamo in zazen, per esempio. All’inizio mi dava fastidio perché avevo un modo di dormire in cui sprofondavo completamente, ma mi sono accorta che quando mi alzo sono completamente riposata e sveglia.

 

- Allora va bene.

 

- Vedo questa differenza specialmente nelle sesshin. Allora mi chiedevo: ma la pratica cambia anche il nostro modo di dormire?

 

- Sì, certamente. Ma questo non vuol dire che dormire profondamente non sia un buon modo di dormire. Quello che succede quando siamo in sesshin è che si ha meno bisogno di dormire, in generale. E’ quindi normale che la vigilanza di zazen continui. Ci sono delle persone che fanno fatica ad addormentarsi durante le sesshin perché zazen stimola la vigilanza. E’ un po’ come dormire con un occhio aperto, come alcuni pesci che dormono con solo metà del cervello. E’ così che funziona. Per esempio, i delfini e le balene dormono con solo un occhio chiuso, con solo una parte del cervello, altrimenti annegherebbero perché devono andare regolarmente a respirare. Se dormissero completamente, morirebbero. Quindi dormono a metà. A volte succede un po’ la stessa cosa alle persone che praticano zazen in sesshin. E’ come se avessero lo spirito che resta sveglio e un’altra parte, il cervello, che dorme. Ma devo dire che a me non succede così. Una volta che dormo, dormo, profondamente. Quindi vuol dire che non ci sono regole. Ma l’essenziale, comunque, è di potersi riposare quando dormiamo.

 

* * * * * * * * * *

 

- Mi succedono delle cose un po’ strane da quando pratico. Ad esempio, questa mattina avevo preso una coperta rossa da mettere sotto lo zafu per stare un po’ più alto. Ma mi sono detto che forse davo un po’ fastidio a qualcuno dietro di me, con lo sguardo. Poi ho detto che non faceva niente, che l’avrei presa comunque. L’ho lasciata dov’era e sono uscito. La persona che era davanti a me ha preso la coperta e l’ha messa davanti a me, davanti ai miei occhi. Poi, ieri sapevo, ero sicuro, che avrei fatto la sveglia stamattina e oggi sapevo che avrei fatto il pilier. E’ la pratica o devo giocare alla lotteria?

 

- Puoi provare! E’ bene, se guadagni molti soldi, tanto meglio. Potrai costruire un bel dojo. Ma avevi previsto che la persona avrebbe preso la tua coperta rossa e l’avrebbe messa davanti a te?

 

- No, no, sono stato punito!

 

- Ah, allora hai ancora dei progressi da fare e il progresso, è quello di mettersi al posto degli altri, non seguire solo la tua idea. D’accordo?

 

 

 

Sabato 29 aprile 2006, kusen delle 7:00

 

Ieri, tutto il giorno, il cielo era coperto di nuvole. Questa mattina le nuvole sono scomparse e il cielo è chiaro. Questo è possibile perché il cielo non trattiene le nuvole, non ci si attacca. E’ lo stesso per lo spirito in zazen. Pratichiamo in mezzo alle illusioni che non smettono di sorgere durante zazen, come delle nuvole. Grazie alla pratica di riconcentrarsi sulla postura e sulla respirazione, non ci attacchiamo a queste illusioni ed esse passano. Il cielo non fa niente di speciale per lasciar passare le nuvole, si accontenta semplicemente di non trattenerle. Ma noi abbiamo una tendenza ad attaccarci alle illusioni. Così abbiamo bisogno della pratica per lasciarle passare. Ecco perchè il Buddha diceva che la realizzazione esiste nella pratica, la pratica di lasciare la presa ad ogni istante. Su questo argomento il maestro Dôgen diceva: “Non ho mai sentito di qualcuno che abbia raggiunto la realizzazione senza la pratica.”

Le persone differiscono a seconda delle loro capacità. Alcuni basano la loro pratica sulla fede, altri sulla comprensione del Dharma, sulla propria pratica. Alcuni realizzano istantaneamente e altri praticano gradualmente. Ma tutti entrano nella realizzazione attraverso la pratica. In altri termini la fede, la fiducia che abbiamo nella Via ci incoraggia alla pratica. La comprensione del Dharma, anch'essa ci incoraggia alla pratica. Non ci sono alternative alla pratica, ma ci sono differenti modi per arrivarvi. La realizzazione non ci arriva dall'esterno, non è come una specie di grazia. Essa viene dal profondo di noi stessi e utilizza la pratica per realizzarsi. In altre parole, noi tutti abbiamo la natura di Buddha; ancora più esattamente, siamo questa natura. Ma la maggior parte del tempo lo ignoriamo. Così questa natura di Buddha usa la pratica per realizzarsi. In altre parole, lo spirito del risveglio vuol dire essere all'ascolto di questa natura di Buddha che chiede di realizzarsi. E’ dargli lo spazio per questo. Questo spazio è lo spazio della pratica. Realizzare istantaneamente è vedere questo intuitivamente. Questo non può che vedersi istantaneamente. Ma praticarlo è necessariamente graduale perchè questo si sviluppa nella durata. Non vuol dire che pratichiamo gradualmente per arrivare ad un risveglio immediato ma è piuttosto l'inverso. A partire dal risveglio immediato facciamo sempre più spazio alla pratica nella vita, in modo che la separazione fra il risveglio e la realizzazione concreta nella vita quotidiana sparisca. E’ il senso di gyoji, della ripetizione di zazen, delle sesshin: far penetrare sempre più profondamente la pratica nella nostra vita.

 

 

 

Sabato 29 aprile 2006, kusen delle 11:00

 

Le nuvole vanno e vengono nel cielo. Il cielo non le trattiene e non cerca nemmeno di eliminarle. Le montagne non ne sono disturbate. Se ci concentriamo sulla pratica giusta di zazen, il nostro spirito diventa come il vasto cielo. Questo implica l'abbandonare ogni spirito di discriminazione, di amare o di non amare, di volere o non volere, di voler ottenere questo o evitare, scartare quello.

L'essenza dell'insegnamento del Maestro Dôgen è che la pratica stessa è realizzazione. Ma evidentemente non è una pratica qualunque, è la pratica del Dharma del Buddha, senza spirito di profitto, senza cercare di ottenere alcunché.

A questo proposito, il Maestro Dôgen diceva che “è importante ricevere le istruzioni di un maestro quando pratichiamo il Dharma del Buddha. Non utilizzate mai le vostre idee personali come base della pratica.”. In altre parole, non seguite la vostra coscienza personale, non cercate di imitare ciò che immaginate essere la realizzazione. Egli aggiungeva poi che il Dharma del Buddha non può mai essere raggiunto né attraverso il pensiero, né attraverso il non-pensiero. A volte alcuni discepoli si attaccano ad una certa idea che si fanno del Buddha. Ma tutte le idee che possiamo farci sul Buddha o sul satori diventano degli ostacoli alla sua realizzazione. Ecco perchè alcuni maestri hanno risposto alla domanda: “Che cos'è il Buddha?” dicendo: “Un bastone per la merda”, per pulirsi il sedere, come si usava.

Questa risposta è certo molto lontana da quello che possiamo immaginare. E se crediamo che la realizzazione del risveglio del Buddha consista semplicemente nel non pensare, allora cadiamo nel nichilismo. Passiamo tutto il tempo a lottare contro i pensieri, contro i fenomeni per eliminarli, per cercare di restare in uno stato di non-pensiero. Questo non porta alcuna autentica liberazione.

Dôgen insisteva dicendo: “Se la vostra aspirazione a praticare non è in accordo con la Via, allora il vostro corpo e il vostro spirito non saranno mai in pace.” In altre parole, se continuiamo a seguire lo spirito che vuole ottenere qualcosa o rifiutare qualcosa, la pratica diventa come una malattia e lo spirito è sempre disturbato, sempre nel giudizio, nell’avidità, nell’odio, passa completamente a lato della realtà così com’é. Ma se invece ci si siede senza aspettarsi nulla, semplicemente concentrati sulla postura, sulla respirazione, lasciando che i pensieri e le sensazioni vadano e vengano come le nuvole nel cielo, allora questa pratica istantaneamente diventa liberazione e ci armonizza naturalmente con la realtà, nella quale non c’è nulla da afferrare, né da rifiutare. Se si pratica per se stessi, vuol dire non aver capito che ‘sé’ non è separato da tutto l’universo, che l’attaccamento a se stessi è la grande illusione. E’ per questo che Dôgen raccomandava di non praticare né per se stessi, né per alcun profitto e alla fine solo per il Dharma del Buddha, il Dharma che avvolge se stessi, gli altri, tutti gli esseri senza separazioni. Fa l’esempio dei genitori che allevano i propri figli, facendo spesso molti sforzi e sacrifici per assicurare loro una buona vita e lo fanno senza aspettarsi delle ricompense, semplicemente come una cosa normale, anche gli animali fanno questo. E ci dice che è molto simile alla compassione del Buddha per tutti gli esseri, paragonabile alla compassione dei genitori per i propri figli, senza calcoli, senza secondi fini. Noi stessi siamo figli del Buddha, delle creature della natura del buddha, condividiamo con Shakyamuni e con tutti gli esseri questa natura. E quindi, come non seguire la Via del Buddha che ci armonizza con ciò?

 

 

 

Sabato 29 aprile 2006, kusen delle 16:30

 

Questa sera, dopo zazen, faremo una piccola cerimonia commemorativa della morte del Maestro Deshimaru. Sarà l’occasione per ricordarci che se abbiamo la fortuna di praticare la Via, di fare zazen insieme, è grazie ai suoi sforzi durante i quindici anni che ha passato in Europa, gli ultimi quindici anni della sua vita.

Nello Gakudoyojin-shu, il capito successivo del Maestro Dôgen riguarda, giustamente, l’importanza di trovare un vero maestro. Egli comincia citando un vecchio maestro: “Se la vostra aspirazione è falsa fin dall’inizio, tutti i vostri sforzi nella pratica saranno vani.” Per esempio, attualmente, lo Zen è alla moda. Spesso è sinonimo di essere “relax”. Le persone identificano lo Zen con la libertà dell’ego. Si aspettano quindi dalla pratica che li aiuti a soddisfare questo ego. Se si comincia la pratica con questo tipo di aspirazione, allora è chiaro che si sbaglierà completamente di direzione e alle fine, tutti gli sforzi che si potranno fare saranno vani.

Dôgen paragona il praticante principiante a un pezzo di legno. Un buon falegname potrà farne una bella opera e allo stesso tempo utile, anche se il pezzo di legno, all’inizio, non era di una qualità molto buona. Quindi, la responsabilità del maestro è molto importante e in particolare nel modo di insegnare come praticare. Il senso della pratica è di realizzare l’autentica liberazione, di liberarsi da tutte le cause della sofferenza, di armonizzarsi con l’autentica natura della nostra esistenza, di desiderare di condividere questo con gli altri, come un’attività naturale. Su questo cammino ci sono molte insidie, molte trappole. Quindi bisogna essere capaci di dare un buon rimedio. Ma anche un buon rimedio può diventare un veleno. L’importante è saperlo per poter correggere i cattivi effetti della medicina. Per esempio, in un dojo si insegnano alcune regole per facilitare la concentrazione e seguirle aiuta la pratica. Ma se ci si attacca troppo alle regole, allora la pratica diventa rigida. E se a causa di questo ci si dice: “Ah sì, le regole non sono importanti, non bisogna attaccarsi ad esse”, si rischia di mettersi a fare semplicemente ciò che il nostro ego desidera fare. A questo punto la regola diventa l’egoismo personale di ciascuno. Per esempio, anche le cerimonie sono completamente l’espressione della nostra pratica. Attaccarsi troppo ai rituali, può divenire un ostacolo all’autentica liberazione. Occorre ritornare sempre alla radice, al senso della nostra pratica. Il ruolo del maestro è quello di accompagnare i praticanti su questo cammino.

 

 

 

Sabato 29 aprile 2006, mondô

 

- Ieri hai parlato di felicità. Ma mi sembra che zazen dia molti problemi. Forse devo meglio comprendere il senso di questa parola.

 

- Quale parola?

 

- Felicità. Perché non appena sono un po’ felice, la situazione cambia e il mio sorriso si trasforma in lacrime. Forse perché mi accorgo, dopo, che essere felice è momentaneo.

 

- Non ci può essere vera felicità se non accettiamo l’impermanenza perché, inevitabilmente, come tu lo sperimenti, le situazioni cambiano, tutto cambia, e finché non consideriamo questo come naturale, normale, ci si scontra costantemente con la realtà. E se la tua felicità è una felicità dipendente, cioè dipendente appunto dalle circostanze, è evidente che se non accetti i cambiamenti allora le circostanze necessariamente cambieranno. Difficilmente sarai felice, ti preoccuperai che questo non durerà. Quindi è per questo che la felicità di cui ti parlavo ieri è la felicità della realizzazione della Via, cioè accettare profondamente l’impermanenza, quindi liberarsi da questo ego rigido che vuole sempre che le cose siano come desidera lui, perché questo non funziona, o funziona molto brevemente e poi è ancora peggio. Quindi, la felicità di cui parlavo, è la felicità della liberazione, liberarsi dell’attaccamento al proprio piccolo ego e poter così apprezzare la vita di ogni giorno, qualunque siano le circostanze. Se c’è il sole, va bene, se piove, va bene. Se hai un fidanzato, va bene, se sei sola, va bene.

 

- Secondo te riuscirò ad accettare questi cambiamenti?

 

- E’ il senso della nostra pratica, è bene saperlo. E’ ciò che ti ho detto poco fa. Se si sbaglia la direzione nella pratica, allora si possono fare sforzi per 20 anni, 30 anni ma non si arriverà mai alla vera liberazione. Bisogna sapere verso dove si va, allora ogni giorno la nostra pratica può accompagnarci in questa direzione. Si può veramente progredire. Ma se ci si sbaglia di direzione, non è possibile alcun progresso. E’ come voler andare verso il polo Sud dirigendosi verso il Nord. D’accordo?

 

* * * * * * * * * *

 

- A volte, sento molta fatica quando faccio zazen.

 

- Che genere di fatica?

 

- Comincia con una fatica fisica nel senso che mi siedo e mi dico: “Ancora ..”

 

- Ancora cosa?

 

- Ancora restare seduta.

 

- Sì.

 

- Ho male dappertutto, non un grande dolore, ma i muscoli sono tesi. Non ho molta voglia di restare seduta e allora mi sforzo, faccio uno sforzo. E’ la volontà che mi fa restare seduta perchè il mio corpo mi dice: “Beh, ne ho abbastanza.”

 

- Durante la sesshin? Perché durante una sesshin ci sono molti zazen?

 

- Sì, durante la sesshin. Quindi, non appena obbligo il mio corpo a restare seduta, il mio spirito se ne fugge, perché in un certo modo, facendo così, me ne vado. Allora comincia come una lotta all’interno di me e mi sforzo. C’è della volontà, vedo i pensieri che arrivano, cerco di ritornare e ho l’impressione, in quei momenti, che i benefici che ho trovato il giorno prima, il primo giorno della sesshin quando non avevo male, siano spariti.

 

- E’ bene.

 

- E’ bene?

 

- E’ una cosa fondamentale dello Zen: che non ci si deve attaccare ai benefici della pratica. Quindi è un regalo della sesshin quello di annullare i benefici. A quel punto comincia la pratica, quando i benefici sono rovinati.

 

- D’accordo.

 

- Altrimenti la pratica, è solo continuare lo spirito ordinario. “Vengo a fare una sesshin, sento molti benefici, ricevo dei benefici, sono contenta, quindi va tutto bene”, ma il senso della nostra pratica è infatti quello di abbandonare questo spirito avido che vuole ottenere dei benefici. E a questo punto, si può realmente attraversare questa crisi – perché è come una crisi – e trovare un’altra dimensione della pratica. Allora la pratica diventa una vera liberazione. E’ la pratica nella quale non c’è beneficio e questo è il più grande beneficio, quello di accettare ciò. E’ una vera rivoluzione spirituale a questo punto, non è solo un modo, un mezzo abile per rispondere alla tua domanda, è veramente essenziale.

 

* * * * * * * * * *

 

- Ieri si è parlato di come zazen lavori sul nostro profondo. La mia domanda è di sapere se ciò che racconterò, se è zazen o se è un caso.

 

- Che cosa racconterai?

 

- Mi sono avvicinato allo Zen negli anni 90, e nel mio lavoro ho cominciato a volare e soffrivo di claustrofobia.

 

- A volare con un aereo?

 

- Sì, a volare in aereo per il mio lavoro. Il mio medico mi diede due soluzioni: fare una psicanalisi per scoprire il motivo o prendere dei medicinali. Era importante scoprire il motivo della mia claustrofobia. Dopo due anni di pratica ...

 

- Di cosa, di pratica di medicinali?

 

- No, di zazen. Dopo due anni di zazen, improvvisamente, ho cominciato a piangere e mi è ritornato in mente il motivo della mia claustrofobia. Durante le vacanze scolastiche, lavoravo e sono restato chiuso in un sottoscala. E questo è rimasto rimosso per 30 anni. La domanda è: è stato un caso o è zazen che lavora veramente sul nostro profondo?

 

- No, zazen non è un caso, lavora così, cioè in zazen non si è più nel controllo mentale. Si abbandona il controllo mentale e quindi molte cose del subconscio possono risalire, quindi non è un caso. Spero che tu non ti limiti a questo piccolo beneficio.

 

- No, no. Adesso, spero solamente di riuscire ad alzarmi!

 

* * * * * * * * * *

 

- Durante kin hin, insisti sul fatto di mettere il peso del corpo sulla gamba avanti, esattamente sulla radice dell’alluce. C’è una ragione per questo?

 

- Sì, è ciò che permette di essere ben radicati, è tutto. L’importante in kin hin, è di concentrarsi totalmente su ogni passo e, come diceva il Maestro Deshimaru, di non camminare come dei fantasmi. A volte, ci sono persone che camminano completamente come dei fantasmi, hanno l’energia nell’aria e camminano esitando, mentre kin hin è una marcia lenta, molto forte, non come se si ondeggiasse. E per non ondeggiare ma per essere ben radicati, è importante premere il suolo con la radice dell’alluce. Questo ti dà un radicamento e lo si può sentire. Certamente, le persone che studiano la medicina cinese o la riflessologia possono trovare la ragione medica. E’ l’esperienza, si sente attraverso l’esperienza. Certamente puoi sperimentarlo da sola.

 

- Perché questa sera, ho una bella sensazione di forza che è arrivata da questo punto. Allora mi sono chiesta se è per questo che i maestri insistono su questo punto.

 

- Non sono solo io. Il Maestro Deshimaru lo ripeteva costantemente.

 

* * * * * * * * * *

 

- Maestro, volevo chiedere se c’è un modo di comprendere la differenza tra lo sforzo dell’ego e la forza che serve per vivere.

 

- A volte è la stessa cosa. L’ego non è per forza cattivo, lo sforzo dell’ego non è per forza cattivo. Ad esempio, il fatto stesso di voler venire a fare una sesshin e di fare lo sforzo per venire e per praticare, generalmente è l’ego che lo vuole. Ma se si vuole continuare solamente con questa forza dell’ego, allora ciò diventa difficile. Quindi è importante – lo ripeto spesso – allo stesso tempo usare la forza dell’ego per iniziare, per entrare nel cammino, nella pratica, nella postura. Bisogna volerlo, la coscienza personale può decidere questo. Ma per continuare, bisogna trovare un’altra fonte di energia e questa energia deve venire dalla pratica stessa che è al di là del nostro ego.

All’inizio ci si concentra coscientemente, volontariamente. Si fanno degli sforzi con il nostro ego e grazie a questi sforzi, la pratica esiste e comincia a funzionare. E a partire da questo momento, si ha meno bisogno degli sforzi dell’ego perchè zazen funziona quasi da solo e zazen ci porta a continuare. Il Maestro Dôgen aveva un’immagine molto bella per evocare ciò. Egli diceva: “Se vogliamo partire per un viaggio in mare, costruiamo una barca”, per attraversare la superficie d’acqua.” E allora, a questo punto, bisogna fare veramente degli sforzi per costruire la barca. In seguito, bisogna metterla in acqua, bisogna issare la vela, prendere il timone, regolare le vele. Tutto questo è l’ego, la volontà, la riflessione. Ma una volta che la barca è partita, è la barca che ci trasporta. Allora, il passaggio è tra “Io fabbrico la barca, la metto nell’acqua, regolo le vele”, e dopo, quando va avanti da sola. Ma a volte, prende una cattiva direzione: il vento cambia, ci sono delle onde e allora bisogna riprendere il controllo. E in fondo, nella nostra pratica, è la stessa cosa. Ci sono dei momenti nei quali dobbiamo praticare utilizzando la nostra riflessione, la nostra coscienza personale, il nostro ego, e poi dei momenti in cui ciò non è necessario e si può abbandonare e seguire una direzione che è completamente al di là del nostro ego e con la quale zazen ci ha messo in contatto. Questo risponde alla tua domanda?

 

- Sì, la mia domanda era più generale, per esempio nel lavoro, nel rapporto con le persone, se c'è questa possibilità di avere dei rapporti con gli altri ma anche il contrario.

 

- Sì, sì, è vero.

 

- E’ un po’ la stessa cosa con la barca.

 

- Ma è bene. Per esempio, se si sta con qualcuno, in una coppia per esempio, ci sono dei momenti, in cui ognuno è sulla sua posizione. L’altro è l’altro e io sono io, e ci si sente diversi e, del resto, è interessante essere diversi, si può cambiare. E poi ci sono altri momenti in cui si diventa unità e non ci sono più differenze, non c’è più un ego da una parte e un ego dall’altra. In altre parole, nella vita come in zazen, ci sono dei momenti con l’ego e dei momenti senza ego. Ma ci sono delle persone che non sanno trovare momenti senza ego, che vogliono sempre controllare tutto con il loro ego. E qui, diventa una vita penosa, stretta e difficile. E’ come guidare un’auto, non bisogna voler funzionare sempre esattamente allo stesso modo. A seconda della strada, se è in salita, se è in discesa, se svolta oppure no, si cambiano le marce. E anche nella vita è uguale. Ci sono dei momenti in cui bisogna riflettere per scegliere ciò che bisogna decidere. Qui l’ego è importante. Ma se è solamente l’ego che decide senza essere in contatto con un’intuizione più profonda, non è sufficiente. Quindi ci devono essere tutt’e due. D’accordo?

 

* * * * * * * * * *

 

 

- Ieri hai parlato di utilizzare bene il tempo di zazen rispettando l’insegnamento, nell’opportunità che abbiamo in questa vita, in questa unica vita di pratica.

 

- In questa unica vita, non lo so ...

 

- Nella vita attuale. Ho l’impressione che questa opportunità potremmo utilizzarla meglio. In una situazione di sofferenza, si è stimolati ad andare alla ricerca di una soluzione per cambiare. Mi chiedo se questo motore deve essere costante nella pratica di zazen. Nella mia esperienza, tutti mi dicono che era questo il motore iniziale per praticare e poi, quando si raggiunge un certo benessere, si ha la tendenza a ritornare alla vita ordinaria, a godere di questa piccola illusione, di questo piccolo beneficio illusorio della via quotidiana. Allora, la mia domanda è: per utilizzare bene questo tempo, questo motore deve essere presente in modo costante?

 

- In ogni caso è sempre presente, solo che spesso non lo vediamo. Per esempio, il motore è l’impermanenza. Ma quando sei molto felice o provi molto piacere, non pensi all’impermanenza. Ti dimentichi, ma l’impermanenza esiste lo stesso. Quindi nella nostra pratica, ciò consiste nel non dimenticare perché, in altre parole, ciò che cerchi di dire è che la Via del Buddha è motivata dall’esistenza di dukkha, della sofferenza in generale. Ma la sofferenza così come l’insegnava Buddha, non voleva dire una sofferenza costante. Essa significa che perfino la più grande felicità o la più grande gioia è impermanente. Quindi anche questo è dukkha. E quindi se si resta consapevoli di ciò anche nella felicità, nella gioia o nel piacere e se si resta consapevoli che questo non dura, allora resta il motore della liberazione, cioè praticare la Via che non è condizionata per ottenere o non ottenere questo o quello per essere felici. Il motore esiste sempre perché “non c’è alcun luogo al mondo, nel più alto dei cieli o nel più profondo dei mari – era un’immagine del Buddha – in cui l’impermanenza non esista.” Non si può scappare a questo. I momenti più felici, i più beati, gli stati di meditazione più sottili, sono tutti impermanenti. Quindi, bisogna lavorare con questo. Ma questo è dappertutto ad ogni istante e allora siamo molti fortunati perchè tutti i fenomeni della vita ci mostrano la necessità di praticare la Via, ogni istante ci insegna questo. Possiamo dimenticarlo in alcuni momenti, non dico che non bisogna godere dei piaceri della vita. Nemmeno il Buddha del resto diceva che non bisogna godere dei piaceri della vita, ma semplicemente ricordarsi che questi piaceri sono molto relativi e molto effimeri e che il senso della nostra vita non è solo di essere abili a mantenere le condizioni che ci fanno piacere e a evitare le condizioni che ci fanno dispiacere. La maggior parte delle persone funziona così, è il fondamento dell’ego. Speriamo di essere abbastanza intelligenti, abbastanza saggi da creare sempre le condizioni favorevoli per avere piacere e per evitare sempre gli inconvenienti che provocano il dolore. Ma non è possibile nemmeno per qualcuno molto abile a questo gioco - è un po’ come un gioco quello di cercare di evitare ciò che fa male e di trattenere ciò che fa bene - non si può vincere sempre a questo gioco. É più favorevole a un’autentica e profonda felicità cambiare la nostra mentalità, il nostro stato mentale, cioè smettere di far dipendere la nostra felicità dall’ottenere ciò che ci fa piacere e dall’evitare ciò che ci fa dispiacere. La liberazione insegnata da Buddha è di liberarsi proprio da questo, cioè realizzare una felicità non dipendente, accettare la tristezza quando si è tristi, la perdita quando si perde, il guadagno quando si vince, il piacere quando c’è piacere.

 

- Ma tutto questo con gioia?

 

- Sì, ma la gioia non può venire che se si ha lo spirito leggero. La gioia è la leggerezza dello spirito e se si è attaccati, se si ha lo spirito attaccato, non c’è gioia, non è possibile. E’ per questo che generalmente le persone che sono liberate da molti attaccamenti sono più gioiose delle altre. Le persone che sono molto ricche o che hanno molto potere e che sono attaccate alle loro ricchezze o al loro potere non sono gioiose, sono sempre preoccupate, hanno paura di perdere. Capisci?

 

* * * * * * * * * *

 

- E’ in relazione alla domanda precedente. Ho l’impressione che quando mi sento male, quando sperimento una sofferenza, quello che mi aiuta è di dirmi che è il segno che c’è un progresso da fare o qualcosa che non ho compreso.

 

- Vuoi dire quando c’è una sofferenza morale?

 

- O anche fisica. Per esempio durante zazen, mi aiuta quando ho male alle gambe o ai fianchi. L’ho sperimentato stamattina, vuol dire che c’è un cambiamento in corso. Forse non è sempre così ma c’è un cambiamento in corso e infatti durante lo zazen successivo è andata molto bene con la stessa gamba. Quindi la mia domanda è sul progresso, perché è anche un’illusione, ma comunque aiuta.

 

- Non è un’illusione il progresso. Non è affatto un’illusione. Dipende da quello che chiamiamo progresso. Il progresso durante zazen, per esempio, non è di non aver più male alle gambe ma di essere capaci di attraversare tutte le situazioni che incontriamo in zazen senza esserne toccati e avere la pace dello spirito anche se si ha male alle gambe. Allora, a quel punto, possiamo dire che il male alle gambe è uno stimolo per imparare a lasciare la presa e quando si lascia la presa, in effetti, si ha meno male alla fine. L’atteggiamento dello spirito reagisce sul corpo. E anche se resta un dolore, esso è meno drammatico, è vissuto meglio. Ed è prezioso imparare questo, ed è un progresso. Il progresso sulla Via è il progresso nel lasciare la presa e si hanno molte occasioni per questo.

 

 

 

Sabato 29 aprile 2006, kusen delle 20:30

 

Esattamente 24 anni fa facevamo zazen al dojo di Parigi. Anche gli altri dojo, il Sangha, praticavano zazen e la nostra pratica era dedicata al Maestro Deshimaru che era rientrato in Giappone qualche tempo prima, gravemente malato.

Esattamente all’ora in cui termineremo zazen, cioè alle dieci meno un quarto, apprendevamo che era morto. Le sue ultime parole prima di partire dalla Francia erano state di dirci di continuare zazen eternamente. Così, nonostante il grande dolore di aver perso il nostro Maestro, non avevamo alcun dubbio su ciò che bisognava fare: solamente continuare zazen, insieme, nel modo in cui ce l’aveva trasmesso, cioè con uno spirito mushotoku.

Prima, ci sono state domande sui benefici di zazen, che sono rovinati dal dolore alle ginocchia e dalla fatica. Certamente, siete in molti a provare ciò, il conflitto tra il guadagno e la perdita, i benefici di zazen e la sofferenza del dolore. I benefici di zazen sono reali e il Maestro Deshimaru ce ne parlava di frequente. Aveva perfino stilato un elenco dei dieci meriti di zazen, che aveva commentato alla televisione. Quando parlava dei benefici di zazen, terminava sempre dicendo: “Ma in realtà non dovete ricercare questi benefici, non dovete aspettarveli e nemmeno attaccarvi ad essi, poiché gli autentici benefici di zazen sono i benefici di mushotoku”, realizzare uno spirito al di là dell’avidità, dell’attaccamento ai benefici e capire profondamente che il Dharma del Buddha non consiste nell’accumulare dei benefici, ma nel realizzare la liberazione. E’ ciò che un vero Maestro deve insegnare costantemente.

Io ricorderò, per continuare il Gakudoyojin-shu che commento durante questa sesshin, ciò che diceva il Maestro Dôgen del vero maestro, che corrisponde del tutto al ritratto del Maestro Deshimaru. Egli diceva: “Essere un vero maestro non ha nulla a che vedere con l’età.” Quindi non è perché si è diventati un vecchio praticante che si è un maestro. E’ necessario aver chiarito l’autentico Dharma, cioè aver compreso il senso dell’insegnamento del Buddha e aver ricevuto la certificazione di un autentico Maestro. Il Maestro Deshimaru aveva realizzato il vero senso del Dharma con il Maestro Kodo Sawaki. E’ questo che lo spinse a venire a trasmetterlo in Europa. Comprendere il senso del Dharma è comprendere che non si può tenerlo per se stessi. L’autentica comprensione implica la compassione per tutti gli esseri che soffrono. Il modo migliore per aiutarli veramente è di trasmettere loro il Dharma. Cioè non la Via dei benefici e dei meriti, che non fa che alimentare l’avidità dell’ego e quindi la causa della trasmigrazione e della sofferenza, ma la Via della liberazione da ogni forma di avidità che è armonizzarsi autenticamente con l’ordine cosmico nel quale non possiamo possedere nulla definitivamente. Quindi la vera saggezza consiste nel praticare il lasciare la presa, nello spirito mushotoku, lo spirito senza ricerca di profitto. E’ stato il “leit motif” dell’insegnamento del Maestro Deshimaru, che ripeteva continuamente. Era per lui il criterio della realizzazione dei suoi discepoli. Quando parlava di qualcuno, cercava di sondare quale era la sua pratica di mushotoku. Alla fine aveva ricevuto la trasmissione ufficiale del Dharma da Yamada Reirin Zenji.

Dôgen aggiunge: “L’autentico Maestro non dà un’importanza primaria alle parole e all’insegnamento intellettuale” poiché egli deve avere una capacità che trascende, che va al di là dello spirito di discriminazione e avere un’aspirazione, un voto al di là delle persone ordinarie. Esattamente il caso del Maestro Deshimaru. Aveva la grande aspirazione del bodhisattvâ di venire in aiuto al mondo intero. Era fortemente convinto che la pratica dello Zen avrebbe aiutato a risolvere la crisi della nostra civilizzazione. Desiderava che tutti i suoi discepoli avessero partecipato a questo movimento, come bodhisattvâ. Certamente, devono essere liberi, liberati da ogni punto di vista egocentrico, non essere ostacolati, disturbati dai sentimenti umani, cioè da sentimenti di preferenza o di rifiuto, di amore o di odio.

E infine, soprattutto, la sua pratica corrisponde al suo insegnamento. E’ un punto essenziale. Ciò che il Maestro Deshimaru insegnava, lo praticava. Egli era l’esempio della pratica. E’ per questo che ha avuto una così grande influenza e che noi siamo qui stasera a praticare insieme ed è per questo che gli dedicheremo la cerimonia di questa sera.

 

 

 

Domenica 30 aprile 2006, kusen delle 7:00

 

Durante zazen, continuate a dare tutta la vostra energia alla postura. Non cercate di risparmiarvi. Date tutta la vostra attenzione alla respirazione e non seguite i pensieri. Se praticate così, anche se è difficile, alla fine è zazen che vi verrà in aiuto.

Nel seguito dello Dakudojojin-shu il Maestro Dôgen insiste sul fatto che studiare la Via facendo ricorso allo Zen è il più grande affare, la cosa più grande della nostra vita. Quindi non bisogna prenderlo alla leggera. La pratica dello Zen non può essere solamente un’attività di benessere. Non può essere qualcosa che utilizza il nostro ego. Il Maestro Dôgen insiste dicendo: “Le persone che amano la facilità, non sono un vero ricettacolo per la Via.” Quindi, se vogliamo autenticamente cercare la Via, non dobbiamo ricercare la pratica facile. E la difficoltà della Via della Zen non è là dove la immaginiamo; non è perché la postura è difficile da tenere e abbiamo male alle gambe. Tuttavia, la pratica dello Zen non è una mortificazione. Dôgen insiste molto su questo fatto. Egli dice: “Ci sono molte persone che si sono mortificate il corpo con pratiche estreme, ma fra di esse nessuna ha veramente realizzato la Via, si è veramente risvegliata.” La vera natura della difficoltà è che la Via non può essere realizzata solamente utilizzando la nostra intelligenza personale e non dipende affatto dalle conoscenze acquisite sullo Zen. La realizzazione della Via dipende solamente dalla nostra capacità di padroneggiare il corpo e la mente, cioè non lasciare che il mentale ordinario diriga la pratica. In altre parole, si tratta di imparare a dimenticare se stessi completamente, nella pratica stessa, si tratta di liberarsi dall’influsso del proprio ego e di non cercare sempre di soddisfarlo, compreso utilizzando l’insegnamento dello Zen. E’ il più grande pericolo che minaccia la trasmissione dello Zen attualmente, il suo recupero per mezzo dell’ego umano. Se si segue questa direzione, mentre crediamo di trarne una soddisfazione, non faremo che andare di delusione in delusione. Perché passeremo a lato dell’essenziale e tutti gli sforzi che allora avremo fatto, saranno perfettamente vani, tempo perso. Quindi continuate a concentrarvi sulla postura, sulla respirazione e lasciatevi assorbire da zazen, abbandonando tutte le vostre preoccupazioni quotidiane. Solamente così lo spirito può aprirsi alla dimensione più profonda della vita, quando non è più ingombrato dal nostro egoismo.

Tutte le religioni, in definitiva, non fanno che insegnare questo, per permettere all’essere umano di ritrovare la sua autentica natura, quella di essere senza separazione con tutti gli esseri, in autentica comunione con tutto l’universo. E questo non come un sogno, un’idea, non come uno stato mistico, ma nella maniera concreta di comportarsi nella vita quotidiana, facendo di ciascuna delle nostre attività il prolungamento di zazen, a cominciare dalla cerimonia che è l’occasione, concentrandosi sui propri gesti, di vivere corpo e spirito in unità, come in zazen.

Il senso della cerimonia è di praticare gasshô e sanpaï. In gasshô ritrovare l’unità interiore, corpo e spirito e l’unità di se stessi con gli altri, esprimendo il nostro più grande rispetto per tutti gli esseri. E nel sanpaï, è l’occasione di sperimentare l’abbandono completo del nostro piccolo ego, portando verso terra il nostro cervello frontale, che permette di ritrovare l’autentica umiltà, quindi nell’unità con la terra che ci porta. E’ questo il senso dell’umiltà. E’ abbandonare l’ego orgoglioso che crede di capire attraverso i suoi concetti. E’ ricevere l’insegnamento della terra, della natura, del corpo, della pratica con gli altri. E’ quello che chiamiamo sanzen, praticare insieme, risvegliarsi insieme.

 

 

 

Traduzione:   Margot Sacco

Trascrizione: Chiara Pandolfi, Franca Mondino, Pino Palumbo, Claudia Ricca