10-12 MARZO 2006
Sesshin di Montefiascone
diretta dal Maestro Roland Yuno
Rech
Venerdì
10 marzo 2006, kusen
delle 7:00
Non muovetevi. I pilier danno l’esempio di non muoversi. Non solo il corpo, ma anche la testa, il viso, lo spirito.
Fin dall’inizio di ogni zazen, concentratevi totalmente sulla vostra postura, cioè inclinate bene il bacino in avanti in modo da prendere con forza appoggio con le ginocchia al suolo. Rilassate bene il ventre in modo da lasciare che il peso del corpo prema bene sullo zafu, sul perineo, che è un punto di forte energia, fondamentale, così come i due punti che premono con le ginocchia al suolo. Concentratevi su questi tre punti che formano la base di appoggio della postura di zazen, che permette di avere una buona energia che sostiene la pratica fino in fondo.
Il bacino è inclinato in avanti come se volessimo che l’ano non toccasse lo zafu, ma le reni non devono essere troppo tese poiché il plesso solare deve restare disteso e il diaframma morbido. A partire dalla vita estendete bene la colonna vertebrale verso l’alto, rilassando bene le tensioni della schiena. Si estende anche la colonna cervicale spingendo bene il cielo con la testa, rilassando le tensioni della nuca e delle spalle. Il mento è rientrato. Così tutto il corpo è ben allungato tra cielo e terra ma senza rigidità. In particolare il volto è ben disteso, la fronte e le mascelle sono rilassate. La lingua è appoggiata contro il palato, la bocca chiusa e si respira dolcemente attraverso il naso. La mano sinistra è nella mano destra, i pollici orizzontali e il taglio delle mani è in contatto con il basso ventre; lo sguardo è posato davanti à sé sul suolo.
All’inizio di ogni zazen si rivedono tutti questi punti importanti della postura in modo da prendere la miglior postura possibile. In seguito mettiamo la nostra attenzione su un punto - il contatto dei pollici - e smettiamo di utilizzare la nostra volontà, la coscienza personale. Si lascia fare a zazen, altrimenti, se la postura è troppo tesa, può diventare aggressiva, contro noi stessi.
Soprattutto, la nostra postura di zazen è senza oggetto. Il corpo stesso non deve diventare un oggetto poiché altrimenti corpo e spirito sono divisi. In zazen non sono ‘io’ che voglio avere una buona postura. Certamente, all’inizio facciamo uno sforzo per assumere la miglior postura per il nostro corpo, ma questo non è l’io che si dirige verso il Dharma (...)
Ma una volta presa questa postura giusta, abbandoniamo l’ego per divenire semplicemente totalmente uno con la postura, corpo e spirito senza separazione. Dimenticando quindi ogni intenzione, semplicemente presenti qui e ora.
Si è attenti alla respirazione, non si cerca in particolare di avere una respirazione lunga. Se rilasciamo ogni tensione, se non si attacchiamo ai pensieri, naturalmente la respirazione si approfondisce al di là della nostra volontà.
Quando concentriamo l’attenzione dello spirito sulla postura del corpo e sulla respirazione, non ci attacchiamo ai pensieri. Li osserviamo per un istante, quando sorgono e li lasciamo passare. Ed è la stessa cosa per le percezioni, le sensazioni, i desideri, le emozioni. Siamo semplicemente coscienti di quello che accade e non intratteniamo gli attaccamenti a ciò che accade. Lasciamo che i fenomeni ritornino semplicemente alla loro fonte, cioè alla vacuità. Così, abbandoniamo interiormente ogni discussione.
Durante questa sesshin commenterò l’ultimo sermone di Buddha che fu anche l’ultimo capitolo scritto da Dôgen nello Shôbôgenzo che si chiama “Gli otto satori della grande persona” cioè di Buddha. Del Buddha che ogni persona è in realtà. E l’ultimo satori, l’ottavo, l’ultima raccomandazione di Buddha prima di morire come pure di Dogen è: nessuna discussione, non-discussone.
Dogen dice: "Ciò significa andare al di là di tutti i pensieri dualisti, di tutte le discriminazioni, e realizzare l’autentica natura di ogni cosa". Cioè di essere semplicemente così, senza sostanza, senza nulla a cui attaccarci. Allora non c’è oggetto di discussione. La discussione viene sempre dall’attaccamento e l’attaccamento viene dal fatto di credere che l’oggetto del nostro attaccamento ha una sostanza fissa (...) e che certamente i nostri pensieri sono più importanti di quelli degli altri, più veri.
E’ importante abbandonare questo tipo di spirito, questa credenza. E’ l’ultimo satori del Buddha.
Durante questa sesshin molte persone sono raffreddate e quindi ognuno deve fare uno sforzo per non tossire o per farlo molto discretamente, con la manica del kolomo contro la bocca e anche a soffiare il naso in modo non rumoroso, in modo da proteggere l’atmosfera del dojo, il silenzio.
Venerdì
10 marzo 2006, kusen
delle 11:00
Durante zazen date tutto alla postura. Senza riserve, come se la pratica del qui e ora fosse una questione di vita e di morte, quindi la cosa più importante, per la quale doniamo tutto. Così non ci lasciamo distrarre dai pensieri e riportiamo costantemente l’attenzione alla respirazione, lasciando cadere tutto il resto. Cioè, in particolare, la coscienza personale.
Anche se c'è un corpo seduto in zazen, in definitiva non è il mio corpo, è il corpo di Buddha, il corpo dell’ordine cosmico: non mi appartiene. Se no potrei guardarlo tutto il tempo, il che non è il caso. E anche, se sono attento alla respirazione, quando questa attenzione diventa profonda io dimentico me stesso nella respirazione, e resta soltanto un corpo e uno spirito intenti a inspirare e espirare tranquillamente, liberi da tutti gli attaccamenti. Corpo e spirito spogliati, abbandonati.
Il maestro Nyojo aveva detto a Dôgen: “Quando siamo totalmente concentrati con un solo spirito, corpo e spirito sono abbandonati. Shinjindatsu raku. E in quel momento si è liberati dai cinque desideri e dai cinque ostacoli.”
Questa fu la grande esperienza del risveglio del maestro Dôgen. E' la stessa liberazione di quella realizzata da Shyakyamuni Buddha.
Nel capitolo sugli otto aspetti del risveglio di Buddha, il maestro Dôgen dice: “I differenti Buddha, sono tutti stati persone risvegliate. Il loro risveglio si chiama ‘gli otto satori’, perché ha otto importanti aspetti; se li comprendiamo, ciò conduce al Nirvana.”
Nello zen comprendere vuol dire realizzare. Non soltanto comprendere superficialmente a livello dell’intelletto, ma comprendere dal profondo di corpo e spirito seduti in zazen, in unità con la pratica; la pratica è essa stessa realizzazione. Così Shakyamuni stesso nell’ultimo sermone, proprio prima di morire, ha chiarito questi otto aspetti.
Non chiudete gli occhi durante zazen, se no vi addormentate.
Il primo aspetto molto importante è di essere liberati dall’avidità, e Dôgen aggiunge: “Ciò significa abbandonare i cinque desideri.”
Si tratta degli stessi cinque desideri indicati dal Maestro Nyojo quando dice: “Quando corpo e spirito sono spogliati, sono liberati dai cinque desideri.”
Si tratta dell'attaccamento alla proprietà, a differenti oggetti materiali ma anche umani; alcuni credono di possedere un marito, una moglie, una famiglia, degli impiegati, degli amici, ma non possiedono nulla. Si è "in relazione con", è differente da possedere.
Il secondo è l’amore sessuale, che può diventare l’oggetto di un'avidità molto grande o addirittura di ossessioni.
Quando pratichiamo zazen, non intratteniamo i fantasmi sessuali: appaiono e li lasciamo passare rapidamente. Nella vita quotidiana evitiamo di diventare ossessionati sessualmente. Un tempo i monaci e le monache, come in tutte le religioni erano senza relazioni sessuali. Adesso nello zazen è possibile, ma non deve diventare una ossessione. Cioè non dobbiamo sviluppare attaccamento all’oggetto: il partner o la partner è qualcuno con cui intratteniamo una relazione libera, fondata su un amore autentico, il rispetto, la benevolenza, la condivisione di uno sviluppo spirituale e anche l'aiuto reciproco sulla via. Ma non possediamo l’altro.
Il terzo oggetto di desiderio è il cibo; certo, abbiamo bisogno di nutrirci per mantenerci in vita e buona salute. Ma l’attaccamento al cibo per altri motivi che non siano il mantenersi in vita o in buona salute è un desiderio del tutto inutile; spesso è un po’ come il fatto di amare i dolciumi o il cioccolato per compensare una frustrazione nella vita.
Ma se ci risvegliamo veramente nella pratica di zazen, non ci sono più frustrazioni. Allora non abbiamo più bisogno di attaccarci a degli oggetti di desiderio, ma si può avere con l'amore e con il cibo una relazione sana, senza ossessione, senza avidità.
Il quarto desiderio è il desiderio di essere famosi, essere rinomati, onori; è tipicamente un desiderio egotico. Cioè si è attaccati all’immagine di se stessi che noi inviamo agli altri e che gli altri ci rinviano. E abbiamo costantemente bisogno di essere rassicurati attraverso elogi, onori, perché non accettiamo che alla fine questo ego è soltanto una costruzione mentale, non così importante. E tuttavia tanti conflitti sorgono a causa di questo attaccamento.
L’aver ragione: si vuole aver ragione essere approvati, e se gli altri non sono d’accordo siamo feriti. Se non siamo ammirati dagli altri abbiamo l’impressione di non valere niente, e tutto ciò è causa di numerose sofferenze a causa delle nostre illusioni.
Praticare profondamente zazen ci libera da tutto ciò.
L’ultimo oggetto del desiderio, è il sonno. Certo, abbiamo bisogno di dormire, di riposarci, ma se ciò diventa pigrizia, difficoltà di alzarsi al mattino per andare a zazen, allora è un ostacolo grande sulla via.
Sono differenti forme di avidità. Il primo satori di Buddha è abbandonare questa avidità, istante dopo istante; durante la Sesshin ci sono molte occasioni per fare tutto ciò, e di conseguenza per risvegliarci.
Venerdì
10 marzo 2006, kusen
delle 16:30
Quando cominciamo a praticare la via del Buddha, a ricevere il suo insegnamento, possiamo comprendere abbastanza facilmente che si tratta solo di liberarsi dall’avidità. In particolare dall’avidità per i desideri di cui ho parlato stamattina, cioè i desideri ordinari: i soldi, il sesso , il prestigio.
Sovente, una forma sottile di avidità si sviluppa nella pratica spirituale. Si abbandonano certi bonno, ma in compenso si pensa di ottenere dei buoni meriti. Ci si concentra sulla pratica, ma si spera di fare esperienze straordinarie, di ottenere uno stato dello spirito speciale, di poter ricevere molta energia; ed eventualmente di poter rinascere in una terra di Buddha, o anche di ottenere il nirvana, il satori.
Ma se si lascia sviluppare questa avidità spirituale, senza accorgersene ci si allontana totalmente dalla via di Buddha e dalla possibilità di una vera liberazione, e di fatto non si fa che intrattenere uno dei tre veleni che è l’avidità. Ed è tanto più difficile da abbandonare, quanto più parrebbe giustificabile spiritualmente.
Il modo di funzionamento dell’ego, da cui siamo condizionati, è di paragonare costantemente il guadagno e la perdita, e di calcolare senza fine: se faccio ciò cosa rischio, se faccio ciò cosa guadagno; l'ego è una specie di agenzia specializzata in questi calcoli. Ma in realtà, come insegnavano costantemente Kodo Sawaki e Maestro Deshimaru, studiare il buddhismo è studiare la perdita. Non il guadagno, la perdita. Non: abbandonare una cosa per ottenerne un’altra, ma abbandonare tutto.
E nonostante ciò, continuare la pratica con uno spirito che non attende nulla, che può donare tutte le sue energie alla pratica senza attendere dei compensi.
Per lo spirito ordinario dell’ego, ciò sembra totalmente assurdo. Ma quando si è profondamente impegnati nella pratica, si può capire che è la sola via possibile, perché finché c’è avidità, anche se è un'avidità spirituale, c’è creazione di sofferenza, perché automaticamente ci si mette ad odiare tutto ciò che disturba il nostro perseguimento.
Ma la pratica della via è anche al di là della perdita. Certo, ogni volta che lasciamo cadere un bonno, un attaccamento, c'è una forma di risveglio, di liberazione. Come diceva Maestro Nyojo, è come incontrare Buddha faccia a faccia: di colpo lo spirito diventa più leggero e si incontra una libertà più grande. Ma lì si è ancora in un sistema di ricompense: si può anche arrivare ad amare il perdere; in francese c'è un’espressione: "giocare a chi perde vince".
Ma se avanziamo ancora più profondamente nella pratica, realizziamo che non c’è realmente nulla da perdere o da guadagnare; e allora lo spirito può diventare veramente libero da questa opposizione tra guadagno e perdita e non essere più condizionato da questo, e può non intrattenere più questa nozione di satori e nirvana.
Allora, si può continuare la pratica senza preoccuparsi, con uno spirito che resta costantemente calmo, in unità con la realtà di ogni istante, che è vissuta assolutamente così com'è, e non in attesa di altre cose.
Allora, si è completamente al di là della povertà e della ricchezza, dell’avere o del non avere, al di là di tutte le nostre fabbricazioni mentali.
Un po’ come il fiore che Shakyamuni ha fatto girare tra le sue dita.
Venerdì
10 marzo 2006, mondo
- Hai parlato di avidità, di attaccamenti, e mi ricordo a Fossano, quando ci siamo parlati, che ti dissi che nonostante che diciamo che non ci sia nulla da prendere e nulla da lasciare, viviamo continuamente con l'impressione che ci sia qualcosa da guadagnare o perdere. Ho fatto una riflessione su questo per quello che riguarda un problema oggettivo, all'interno del dojo. Il fatto che il ruolo del responsabile, all'interno del dojo, in qualche modo diventa o può diventare causa di disagio all'interno del dojo, sia per il responsabile che è sempre sotto la lente di ingrandimento, che tutto quello che fa è ... osservato dagli altri [- in italiano]; ma io mi chiedo, non è... pericoloso dare una responsabilità a una persona per tanto tempo? Se all'interno del dojo, i monaci all'interno del dojo più anziani che hanno da criticare sovente questo ruolo qui, perché non lo conoscono, potessero fare questa esperienza per un tempo non lungo, un tempo che potrebbe essere per esempio un anno, il tempo di verificare come ogni pratica che facciamo, come i suoni, come tutto quello che viene fatto all'interno del dojo, non potrebbe essere un aiuto perché non si crei un iper-attaccamento o non ci si identifichi con questo ruolo?
- A una posizione?
- Sì
- Sì, sarebbe possibile, ma bisognerebbe anche avere l'investimento e la capacità di assumere questo ruolo, perché organizzare una rotazione per il principio di non attaccamento a una posizione è una buona idea, ma è un po' un'idea teorica, che viene dal cervello frontale. In linea di principio sì, perché no, ma in realtà bisogna vedere chi ha lo spirito di dare veramente tutto il tempo e l'energia disponibile al dojo; e per essere in questo ruolo è difficile armonizzare, fare anche delle scelte che sono a volte criticate.
- In questo potrebbe avere una funzione importante il responsabile uscente anziano che può restare come sostegno e accompagnare la persona perché impari. E' chiaro che è una cosa della mente frontale, ma quando all'interno di un dojo diventa un problema, quale può essere...
- Un problema per chi? Per chi è un problema?
- Ma, se c'è un disagio all'interno del dojo, per le per le persone che praticano. Adesso stiamo parlando di monaci, parlando anche del gruppo dei più anziani, non stiamo parlando solo dei, dei... Perché i litigi, i discorsi non sono tra principianti, sono tra, tra persone che praticano da lungo tempo e io penso che siano, che partano da attaccamenti che ancora noi non riusciamo a vedere, perché se li vedessimo non ci sarebbe neanche la discussione. E' tipico forse della nostra società occidentale, e allora dobbiamo, forse, anche usare il cervello frontale e vedere qual'è il modo migliore per poterci... anche non avere paura di cambiare nelle cose, per potere funzionare insieme.
- Io propongo che si guardi questa questione concretamente: se esiste effettivamente. E se questo problema esiste in più dojo, bisogna sicuramente trovare una soluzione.
Penso che in un dojo si debba favorire una direzione collettiva e diminuire l'importanza della posizione del o della responsabile. Trovare un modo di funzionare in cui ci sia la più grande condivisione di responsabilità. E che il o la responsabile sia piuttosto come un coordinatore dell'equipe, del gruppo.
- Che funzioni più il gruppo spirituale, il consiglio spirituale degli anziani all'interno di un dojo?
- In modo che così le persone si prendano di più le responsabilità, siano più responsabili. Là dove ho un dubbio, è nella realtà concreta, cioè sulla reale disponibilità delle persone a investirsi. E' facile criticare, è più difficile fare, assumersi la responsabilità.
Ma si può sperimentare, si può essere aperti a questa tua idea, a sperimentare nuovi modi di dirigere, perché in ogni caso è del tutto evidente che ci sono dei problemi. Non bisogna negare ciò.
- Lo dico anche per il responsabile, perché diventa poi, caricarsi sulle spalle tutto, comprese le critiche, mettere le energie e non avere poi abbastanza energie per andare avanti.
- Ciò che ti propongo, ciò che propongo, è di fare a ogni sesshin un incontro di insegnanti, e che durante questa sesshin che facciamo un incontro di insegnanti su questo tema. con quelli che hanno una responsabilità di insegnamento. Forse già stasera possiamo farlo, per avere tempo.
* * * * * * * * * *
- Potete camminarci sopra, utilizzatelo pure [lo zagu]
- Se la Via del Buddha ci insegna il retto modo di vivere in armonia con l'ordine cosmico, se l'ordine cosmico non è diverso dall'impermanenza ed è ineffabile...
- Ineffable?
- Sì, ineffabile, inafferrabile. Quindi è, come dire, il vuoto. Però il vuoto è sempre anche la forma. La parola ordine cosmico mi fa più pensare all'aspetto forma. Ora, nel dojo, nella sesshin, l'aspetto forma è molto importante.
- E allora?
- Mi domando, fuori dalla sesshin, fuori dall'ambiente della pratica formale del dojo, del tempio, diciamo, nella vita quotidiana, davanti a problemi, a questioni di ordine economico, politico, sociale, ambientale, problemi che al tempo del Buddha e dei maestri antichi non c'erano.
- Non c'erano?
- Se c'erano c'erano diversamente, insomma...
- C'erano delle guerre, il Buddha ha dovuto intervenire in grandi conflitti politici. Allora, qual'è la tua domanda?
- Voglio dire: al di là che noi fondiamo la nostra vita sulla consapevolezza del vuoto, sulla crescita, non c'è la necessità che l'aspetto forma... cioè secondo me se c'è, immagino io, l'ordine cosmico, se c'è una corrispondenza tra vuoto e forma dovrebbe avere, così come qui abbiamo determinate forme per fare le cose, che esprimono l'essenza del vuoto, anche dal punto di vista del lavoro che si fa, delle scelte di vita sul punto economico, lavorativo e del proprio impatto sull'ambiente ecc... ecc.. dovrebbe essere parte dell'insegnamento, nel contesto attuale, altrettanto importante di quello che sono le forme nella pratica formale, l'aspetto forma dell'ordine cosmico.
- Sì, sì è vero. E' vero ma la questione è quanto... - scusa, preferisco parlare in francese, scusami. Mi dicevo: non riesco a esprimermi, è strano: evidentemente, parlavo in italiano! [risate]
La questione è di sapere fino a che punto si devono guidare le scelte delle persone nella vita sociale, economica, politica. La pratica dello zen nel dojo ci dà una base per rimettere in discussione il nostro modo mentale ordinario di funzionare. Per esempio, il fatto di impregnarsi di questa realtà dell'impermanenza, della vacuità degli oggetti di attaccamento, è un invito a funzionare concretamente in un modo meno egoista. Poi sta a ciascuno di vedere nella propria vita come può funzionare in modo meno egoista, meno avido e più nel dono, nella condivisione. E in definitiva, la cosa che chiamiamo impermanenza o vacuità è un altro aspetto dell'interdipendenza: tutto non esiste che in una rete di cause e di condizioni e dunque niente ha sostanza, né il nostro ego né nient'altro. Ma tuttavia esiste certamente questa relazione di interdipendenza, è il fondamento della vita: il Dharma, l'ordine cosmico è l'interdipendenza.
Allora, se siamo impregnati di questa realtà, ognuno può apprendere nella sua maniera di funzionare nella vita sociale, economica, politica, familiare e anche amicale, come tenere conto di questa realtà dell'interdipendenza, del non-ego.
Allora, c'è un'infinità di possibilità e credo che stia a ciascuno creare la sua vita e la sua azione a partire da questo grande principio che lo zen ci fa scoprire nell'esperienza. Allora, evidentemente ci si potrebbe spingere più in là e prescrivere in un certo numero di atteggiamenti o di comportamenti. Per esempio, invitare fortemente a una riflessione sull'ecologia e spingere le persone a creare forse un'associazione o delle associazioni zen per la protezione ambientale, per esempio; e ci sono molte altre cose che si potrebbe immaginare di fare, ci abbiamo pensato spesso. Ma credo, la mia idea è, che sia preferibile di concentrarci sulla radice dello spirito e dell'esperienza che facciamo attraverso zazen, e la pratica nelle sesshin e nel dojo, e sui precetti del bodhisattva, e di lasciare a ciascuno di creare il suo proprio modo di esprimere questo nella vita. Se no, si abbandona il modo specifico dello zen e si rischia di fare come tutte le chiese, di cominciare a entrare in un'azione sociale e a trasformarsi in un'organizzazione che è troppo nei fenomeni sociali. E che di colpo perde la sua vocazione iniziale di essere un mezzo di riflessione, di trasformazione interiore a partire dalla quale...è già così, funziona già così nel nostro sangha. I discepoli, i praticanti, adottano dei nuovi modi di lavorare, di funzionare: creano delle cose nel campo dell'educazione, della sanità, dell'ambiente. Il rischio è altrimenti di rientrare in un funzionamento ideologico, e diventare come un partito politico col suo programma, le sue idee, con un'ideologia di come far praticare, e si perde veramente ciò che è l'essenza della nostra vocazione.
- Sì, questo pericolo l'ho presente, e infatti sono d'accordo che si perderebbe il nocciolo, la cosa fondamentale. Ma come ponevo la cosa io, intendevo dire che il fare un'azione qui nella sesshin, per esempio preparare da mangiare in un determinato modo - non è un modo qualsiasi, è un determinato modo - ha l'effetto, sottostando a una certa forma definita, di creare una condizione mentale di presenza complessiva, se lo sforzo, la difficoltà nella vita lavorativa, economica ecc.. quotidiana di adeguarsi a un tipo di vita sostenibile complessivamente, e quindi diciamo l'atto pratico e mentale di incanalare, far prendere quella forma alla propria vita, può avere lo stesso effetto di forma che crea la consapevolezza del vuoto? Così come, diciamo, in un modo meno definito, più allargato a tutta la vita, la stessa funzione che ha una determinata pratica formale come cucinare il cibo, come offrire l'incenso, come..
- Capisco un po', ma puoi comunque tradurre? [risate fragorose]
Sì, è possibile, ma bisogna vedere qual'è l'ambito di libertà di cui si dispone, evidentemente. La difficoltà è che non puoi imporlo agli altri. Ad esempio: tu lavori in un'organizzazione, e hai scoperto durante la sesshin un nuovo modo di funzionare e dici: sarebbe bene proporre questa maniera alla nostra organizzazione. Allora, devi convincere le persone, trovarne due o tre che sono d'accordo ad adottare questo funzionamento, dunque non è facile. Ma credo che si debba provare, proporre. Proporre esperienze, mostrare tu stesso l'esempio: se a partire dalla maniera di funzionare nella sesshin tu trovi che nella tua famiglia o nel tuo lavoro si può forse tentare di funzionare in un altro modo, più giusto, comincia già a farlo tu, se puoi, e poi proponilo ad altri..
- Non voglio farla un po' troppo lunga adesso [risatine] ma volevo dire che non è questo quello che volevo dire.
- Non sei stato chiaro, allora
- Volevo dire: la pratica, cioè fare le cose in una determinata forma, significa, crea quella condizione interna in noi perché ci sottomettiamo a un ordine più grande di noi e dentro a questo fatto andiamo al di là dell'ego. Volevo dire che la stessa cosa può funzionare nel portare avanti una vita sottomettendosi, son proprio scelte di vita, a un ordine nell'interesse del pianeta, capito, perché poi il pianeta è sempre l'ordine cosmico, è sempre la vacuità, però vedendo la propria vita, impostandola in un senso pratico nell'interesse di qualcosa, come il pianeta, più grande di noi, e allora con lo stesso effetto tra vuoto e forma delle pratiche formali del dojo.
- Sì, ma è pericoloso.[Chiede di tradurre la domanda in francese, ma la traduttrice dice che non può] Penso di avere capito, ma questo può essere pericoloso perché per esempio, nel dojo si fanno solo delle buone cose. Ma nella società c'è un problema di etica. Per esempio puoi pensare .. [ rivolto alla traduttrice] Parlo in francese, puoi tradurre? [risate]
Tu puoi pensare che seguire l'ordine cosmico sia per esempio: se c'è una guerra bisogna fare la guerra, è l'ordine cosmico! O se lavori in un'impresa in cui il padrone è molto avido e impone delle condizioni di lavoro estremamente dure, allora a quel punto è bene per il tuo ego, per l'ego di tutti, di abbandonare l'ego e di seguire ciò come se fosse anche questo l'ordine cosmico. Bisogna far attenzione che sottomettersi alla realtà ed essere totalmente rinunciatari in rapporto all'etica, essere come fatalisti o conformisti è pericoloso. Nel dojo non c'è alcun problema a sottomettersi alle regole perché ci sono giusto per favorire delle buone condizioni di pratica, ma nella società, le regole della società non sono così. A volte le regole sono a servizio del profitto o a servizio di un modo un po' violento di vivere. E quindi dirsi: boh, questo fa parte dell'ordine cosmico dunque mi ci sottometto, è pericoloso. Bisogna comprendere che quando si parla di ordine cosmico si parla del principio di base che fa sì che le cose esistano. Cioè, come ho già detto, l'interdipendenza totale e l'impermanenza totale. Quando comprendiamo ciò abbiamo naturalmente la tendenza ad abbandonare il nostro egoismo e ad agire in maniera solidale, in un modo che non può provocare il male o la sofferenza degli altri. Ma la società nella quale siamo, anche se funziona nell'ordine cosmico, non è per niente organizzata su queste basi. In tutti i casi, non sempre. E in ogni caso, spesso è organizzata per favorire gli interessi egoistici, le illusioni. E allora in quel caso se si dice: boh, questo esiste, fa parte dell'ordine cosmico, lo seguirò, diventa pericoloso. E' per questo che in zazen si dice: bisogna abbandonare ogni spirito di scelta e di discriminazione. Certo, perché nel dojo non si può commettere alcun male. Allora è l'occasione di sperimentare un stato dell'essere al di là del bene e del male. Ma quando si è confrontati col fenomeno si è ben obbligati a fare delle scelte, è un'altra dimensione. E a partire dalla dimensione della vacuità, cioè dalla dimensione assoluta, si può sviluppare un modo di essere che ci fa agire bene ed evitare di agire male, naturalmente, a partire dalla comprensione, o.k., e in questo caso non abbiamo neppure bisogno né di regole, né di precetti. Ma nel mondo sociale, la maggior parte delle cose non sono organizzate su queste basi, ed è per questo che c'è bisogno di leggi, di regole, e spesso le regole non sono affatto buone, e quindi c'è bisogno di discernimento, occorre la capacità di giudizio, e non seguire qualsiasi cosa. Capisci?
- Sì, grazie.
Sabato
11 marzo 2006, kusen delle
7:00
[ prima del kin hin ]
Durante una sesshin, quando un responsabile si dimentica della sua responsabilità sciupa l’ordine della sesshin e riceve il rensaku come un richiamo alla vigilanza. Questa mattina il responsabile della sveglia non ha suonato la sveglia, allora deve ricevere il rensaku. affinché sia riportato alla (…..)
Il rensaku deve essere dato più forte, dà una grande energia; non è una punizione, non esitate.
[ dopo il kin hin ]
Durante zazen, siamo seduti faccia al muro; anche se al di là delle finestre c’è un bel paesaggio, ci si accontenta di appoggiare lo sguardo davanti a sé, sul suolo.
Non si cerca di afferrare tutti gli oggetti della vista, ci si accontenta di essere semplicemente seduti. E si è semplicemente soddisfatti di continuare zazen insieme in questo dojo, non attendendo null’altro; così lo spirito diventa completamente tranquillo.
Abbandonare l’avidità non è una mortificazione, non è un sacrificio: è la via della felicità assoluta, cioè del non dipendere da nulla, da nessun oggetto; da nulla che si possa perdere o che ci possa mancare, accontentandosi di essere pienamente, al di là di tutte le nostre categorie dualistiche quali avere non avere, essere non essere; è quello che il Buddha chiamava il secondo aspetto del satori: essere soddisfatti.
In generale, nella nostra società si pensa che l'essere soddisfatti dipenda dall’ottenere un buon oggetto, che corrisponda al nostro desiderio. Allora c’è la tendenza a cambiare continuamente oggetto e buttar via quello che non ci soddisfa più: gli oggetti materiali come la macchina, la televisione, ma a volte anche le relazioni. Tutto il sistema economico e sociale è basato su questo: la corsa agli oggetti di soddisfazione; ma la pratica dello zen è rendersi conto che si tratta di un errore, e fare completamente dietrofront.
Dôgen commentava questo secondo aspetto del satori di Buddha in questo modo: “Ciò significa essere soddisfatti di quello che si ha, qualsiasi cosa essa sia”. Per esempio, durante la sesshin, quando riceviamo il cibo lo accettiamo completamente al di là delle nostre preferenze, con gratitudine per quello che ha preparato il tenzo.
Buddha diceva: “Se voi desiderate sfuggire alla sofferenza, dovete avere uno spirito soddisfatto cioè avere uno spirito felice e tranquillo. Una tale persona, è contenta anche se deve dormire per terra mentre una persona insoddisfatta, anche se dorme in un palazzo sarà infelice.”
E’ importante comprendere ciò intimamente e realizzarlo nella nostra vita personale. Fin dal mattino quando ci svegliamo, è inutile rimpiangere il sonno, ci si alza con gioia per vivere questa giornata nuova. Non ci si pone il problema "ho voglia di andare al dojo o no", ci si va naturalmente; e pratichiamo inconsciamente come il sole che ogni mattinasi alza e illumina la terra senza scegliere cosa illuminare, dona la sua luce, il suo calore generosamente e universalmente. Lo spirito soddisfatto è così: al di là dello spirito di selezione e scelta.
Per esempio, alcune persone sono insoddisfatte del loro zazen: vorrebbero avere dei pensieri spirituali profondi, e passano il loro tempo a pensare stupidaggini; o altri vorrebbero non pensare, ottenere la vacuità dello spirito, e invece sono ininterrottamente invasi da ogni sorta di pensiero ed il loro spirito diviene come un campo di battaglia perché cercano di rigettare i pensieri per pervenire a uno stato di non-pensiero; così queste persone non sono mai soddisfatte.
Mentre invece, lo spirito giusto di zazen consiste nell’accogliere tutto quello che si presenta senza attaccarsi né rifiutare, dunque abbandonare qui e ora lo spirito di selezione o di scelta. Allora, si può essere sempre soddisfatti, e non c’è un buon zazen o un cattivo zazen.
Le persone insoddisfatte, anche se sono ricche sono in realtà povere, è Buddha che dice questo. Ma una persona povera che ha uno spirito soddisfatto, è in realtà ricca. E soprattutto, una persona soddisfatta ha compassione per gli altri, per le persone che non hanno questa soddisfazione, perché costoro sono sempre schiavi dei loro desideri. Allora, la vera compassione non consiste nel tentare di soddisfare i desideri degli altri, ma di far condividere questo spirito soddisfatto, che è la porta della felicità incondizionata.
Il maestro Ryokan era un perfetto esempio dello spirito soddisfatto e alla fine, in uno dei suoi poemi, descrivendo la sua vita nel suo eremo dice: “Finché il sole è nel cielo, io riparo i miei abiti consumati. Davanti alla luna, leggo ad alta voce i sutra per me stesso. A coloro che condividono la mia fede, lasciatemi dare questi consigli: per gioire della vita infinita, non avete bisogno di molte cose.”
Sabato
11 marzo 2006, kusen
delle 11:00
Il terzo aspetto del risveglio del Buddha, è di amare la calma e la solitudine.
Per esempio, per venire in sesshin cerchiamo un luogo isolato dal mondo, dall’agitazione.
Buddha aveva detto ad un monaco: “Se desiderate realizzare la calma del Nirvana, dovete condurre una vita solitaria. Una persona calma è rispettata da tutti gli dei; per questo motivo bisogna abbandonare l'attaccamento a sé e agli altri e condurre una vita solitaria, e così eliminare la radice della sofferenza. Coloro i quali amano vivere con molte persone finiranno per essere disturbati da queste persone; come un grande albero che ha molti frutti e sul quale molti uccelli vanno nutrirsi: quest’albero finirà per essere distrutto”.
Buddha usa un'altra immagine, dice: “Le persone ordinarie sono come un vecchio elefante che è incapace di liberarsi da solo quando cade nel fango”. Lo stesso Kodo Sawaki parlava spesso della paralisi di gruppo.
Tuttavia, si pratica zazen insieme; si fa il voto di non separarsi da tutti gli esseri finché ci sono esseri che soffrono. Allora, cosa vuol dire questa vita solitaria che dobbiamo condurre?
E’ realizzare che in fondo, in realtà noi andiamo sempre soli. Il maestro Yoka diceva nello Shodoka che noi andiamo sempre soli, ma soli giocano insieme sulla via del Nirvana coloro che sono realizzati. Sono i due poli della nostra pratica e i due poli della della vita.
Noi siamo profondamente soli perché non possiamo possedere nulla. Anche se amiamo profondamente una persona, questa persona resta libera, differente da noi stessi. E se anche desideriamo fortemente unirci all’altro, l’altro resta l’altro.
Il maestro Deshimaru diceva che anche due amanti nello stesso letto non fanno gli stessi sogni, sono insieme ma restano differenti. Ugualmente, nessun altro può realizzare il risveglio al posto nostro. Anche se noi pratichiamo insieme, anche se seguiamo un maestro, il maestro può semplicemente mostrarci la via, ma possiamo andare su questa via solamente da noi stessi, e non dipendere dagli altri. Ciò vuol dire che noi siamo profondamente responsabili della nostra vita.
Chiaramente possiamo ricevere aiuto dagli altri, ed è il senso stesso del Sangha, è la ragione per cui pratichiamo insieme. Ma gli altri non sono me e dobbiamo realizzare ciò profondamente, accettare profondamente la nostra solitudine e dal più profondo di questa solitudine incontrare l’altro. Smettere di domandare sempre agli altri che soddisfino le nostre brame, desideri, curiosità. Allora possiamo realizzare il vero amore. Gli altri non lì per realizzare i nostri desideri; allora possiamo vivere insieme liberamente, in una vera condivisione aldilà di ogni attesa. E' giocare insieme sulla via del Nirvana.
Se non dipendiamo dagli altri, allora possiamo vivere e praticare insieme senza essere disturbati dagli altri; ma se aspettiamo sempre qualcosa dagli altri, la nostra richiesta non sarà mai soddisfatta perché gli altri non saranno mai sufficientemente adeguati ai nostri desideri, e ci sarà sempre qualcosa che non va. Un po’ come le persone che si prendono un amante e sperano di cambiarlo per renderlo conforme ai propri desideri; queste persone pensano che questo sia amare, ma amano solo le proprie idee, non l’altro né la sua differenza.
Ognuno può sperimentare ciò ed imparare ad armonizzare questi due poli della nostra esistenza: la nostra solitudine profonda e la nostra esistenza con gli altri: è la via del Bodhisattva.
Il non-oggetto, la pratica mushotoku e la condivisione con gli altri nella compassione e nella benevolenza non sono affatto contraddittori, ma del tutto complementari, come l'espirazione e l’inspirazione in zazen, come spingere la terra con le ginocchia ed il cielo con la testa.
Sabato
11 marzo 2006, mondo
- Durante la sesshin cosa consigli: resistere al dolore o cercare - perché spesso il dolore distoglie dalla concentrazione - oppure sciogliere la postura e aspettare e poi ritornare in postura ed essere più attenti e più concentrati? Perché spesso il dolore distoglie dalla concentrazione.
- Capisco. Dipende qual'è il livello di dolore. Il dolore non deve arrivare a un punto insopportabile; d'altronde, se è davvero insopportabile, bisogna per forza smettere e cambiare postura: se è insopportabile vuol dire che non lo puoi sopportare, quindi devi cambiare. Ma ci sono persone che si impongono uno sforzo a volte eccessivo e ciò non è necessariamente una buona cosa, non solo perché disturba la concentrazione, ma perché questo a volte rischia di rinforzare l'ego, perché può voler dire: io sono più forte del dolore, io non mi muoverò. E in questo caso è un atteggiamento che è un po' competitivo con se stessi, in rapporto agli altri: io non voglio essere quello che si muove. E' un po' un intrattenere un'attitudine interiore erronea. Ma anche l'inverso può essere sbagliato: appena c'è un po' di male alle ginocchia ci si dice: ah, non mi va di soffrire, innanzitutto un po' di comodità; allora sciolgo l'incrocio delle gambe, non importa se questo disturba gli altri. Fino a un certo punto sopportare il dolore è un'occasione di praticare la pazienza, di lasciare la presa dall'ego che vuole stare comodo. Si va in sesshin sperando con ciò di migliorare il benessere, e tutto quello che si riceve in cambio è un gran male alle ginocchia: se si continua malgrado ciò, questo può produrre un cambiamento interiore spirituale. Cioè vuol dire aver fiducia in una dimensione della nostra esistenza che è al di là del piacere e del dispiacere, e con la quale ci si può mettere in contatto attraverso la pazienza, fronteggiando il dolore; ma evidentemente non deve essere una cosa esagerata, per il rischio di cadere in ciò di cui ho parlato prima, cioè rinforzare l'ego e intrattenere un atteggiamento competitivo, cioè duro: vincere il dolore. Tutto dipende, in definitiva, dall'atteggiamento interiore, non ci sono regole per questo. Si discute a proposito di regole, ma per questo non ci sono regole. Del resto per ciascuno la sensazione del dolore è differente. Si è tentato di misurarla facendo delle scale del dolore, ma è soggettivo; e soprattutto la risposta di ciascuno è differente. Ma c'è un modo di attraversare il dolore che non rinforza l'ego che è la sdrammatizzazione, che consiste nell'attraversare il dolore senza irrigidirsi ma rilassando le tensioni e concentrandosi sull'espirazione. E poi c'è soprattutto il koan fondamentale: chi è che soffre? Che cos'è che soffre? Se volete concentrarvi su questo koan, può essere una fonte di risveglio fondamentale. Il problema è avere ancora la disponibilità a porsi questa domanda nel momento in cui si ha male.
- Sì perché il punto è che a un certo punto a me succede che l'attenzione, la concentrazione, viene distratta dal dolore, allora mi chiedevo se era quello il punto in cui uno doveva sciogliere la postura e cercare di far riposare le gambe per poi rimettersi e riprendere l'attenzione. Perché a un certo punto ci si concentra molto su questo koan: chi è che soffre? E quindi non si è concentrati ma si pensa al dolore: chi soffre, chi non soffre...
- Sì, ho capito . Ma la maggior parte delle persone che non soffrono in zazen e soprattutto quelle per cui zazen è confortevole hanno dei problemi ancora peggiori. Sono del tutto distratti perché si trovano talmente bene che possono tranquillamente pensare ad altro. E' comodo lo zazen quando non si soffre, e si può pensare a ogni sorta di cose piacevoli.
- Posso considerarmi fortunato.
- In generale quando si passa attraverso le due fasi, il dolore e poi finalmente uno zazen confortevole, se ci ricordiamo questi due tipi di esperienze constatiamo che eravamo più concentrati con il dolore che con la comodità. Perché concentrarsi è concentrarsi su ciò che è lì, e il dolore ci tira verso quello che è lì presente. Nella comodità, siccome non succede niente, possiamo pensare ad altro, immaginare qualcos'altro, e il dolore invece ci riporta. Allora c'è un buon uso del dolore, non è necessariamente un nemico.
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- Qual'è la vera compassione e qual'è il modo migliore di essere compassionevole verso gli altri, in maniera sincera con se stessi?
- La vera compassione non è necessariamente la simpatia, non è necessariamente la pietà, non è solamente l'emozione di sentire il dolore dell'altro. Quest'emozione è spesso la base della compassione, il punto di partenza, che ci stimola. Se non abbiamo questa empatia, questa capacità di mettersi al posto dell'altro e di provare un po' quello che prova è difficile avere compassione. Ma la vera compassione, come dicevo all'inizio, è domandarsi: cosa posso fare per aiutare l'altro efficacemente? Questa è la compassione che va sempre con la saggezza, che è di pensare che mezzo posso trovare per aiutare l'altro.
- Ma se io penso qualcosa e credo che per lui sia bene, e alla fine non lo è?
- E' molto difficile fare il bene dell'altro nonostante l'altro. Quindi non si tratta di convincere l'altro...
- Scusa, cosa vuol dire nonostante l'altro?
- Vuol dire: se non è d'accordo. Spesso le persone vogliono fare il bene dell'altro - è terribile questo - come i missionari che volevano convertire gli africani malgrado loro, che erano molto contenti delle loro divinità locali, a credere in Cristo. E i missionari pensavano veramente di fare il bene dell'altro, ma è un po' una falsa compassione. E allo stesso modo ci sono gli ayatollah che per compassione pensano sia necessario uccidere chi profana Allah perché se non li si uccide andranno all'inferno e sarebbe una sofferenza peggiore. E' la compassione degli ayatollah: uccidere gli altri per il loro bene.
Cioè, voglio dire che che non si può aiutare l'altro malgrado lui; credo che si può accompagnare l'altro, a condizione che lui stesso o lei stessa possa risolvere la radice della sua sofferenza. Ma per questo bisogna trovare il momento giusto, in cui la persona abbia l'apertura di spirito per accettare l'aiuto. Ed è importante che ci sia fiducia tra la persona che vuole aiutare l'altro e la persona che deve ricevere l'aiuto.
Spesso la persona che deve aiutare è in una posizione difficilmente accettabile per l'altro, perché è una posizione di superiorità: Io so cosa va bene, io sono quello che ti aiuta. E del resto è spesso umiliante per l'altro. "Io ti voglio aiutare, ti voglio aiutare" "Ma, merda!" [viene tradotto con: vaffa'nbagno!, il che provoca risate fragorose], può provocare questo genere di reazione. E' il limite della compassione. Quindi implica molta empatia, il mettersi al posto dell'altro e dunque ci vuole l'intuizione, la saggezza, attraverso l'esperienza della propria sofferenza: come posso accompagnare l'altro nella risoluzione della sua difficoltà e della sua sofferenza. E credo che ci voglia molta umiltà, essendo sempre prudenti, non volendo imporre qualcosa. Quindi con la capacità di ascoltare. Molto spesso l'aiuto più grande è semplicemente ascoltare. Kannon è la divinità che ascolta il dolore del mondo. Chiaramente non solo ascoltare, ma cercare di mostrare che c'è una via possibile per comprendere la causa del dolore, che è possibile risolverlo e come è possibile risolverlo, che c'è un cammino. Tutto il Dharma del Buddha è basato su ciò. Cioè, riconoscere la sofferenza e accettarla è già in sé una via, e aver fiducia che non è insolubile; spesso le persone che soffrono molto hanno l'impressione che niente e nessuno li possa aiutare. Soprattutto all'epoca attuale, una grande sofferenza è la depressione che crea una sensazione che niente si può fare, niente può aiutare. Ma tutta la sofferenza è causata, non c'è una sostanza, ma solamente cause. Allora, questa è la fiducia che il Buddha ci ha portato attraverso il suo insegnamento; ma per arrivare a trasmetterlo, e quindi ad aiutare gli altri in maniera buddhista, bisogna avere fiducia che la persona sia pronta a fare essa stessa il lavoro di risolvere la sofferenza ed accettare che vi sia una possibilità di risolvere questo problema. Questa è la compassione in senso buddhista. E a volte non si può arrivare con le quattro nobili verità e poi provocare un grande risveglio nell'altro; a volte la compassione è giusto una piccola consolazione, giusto un piccolo ascolto: perché non è il momento, l'altro non è pronto. Se l'altro non è pronto e vogliamo a tutti i costi far passare il Dharma, non passa, non può passare con la forza. Bisogna vedere se è pronto, e che passo può fare, là dove si trova, in direzione del Dharma, della Via.
* * * * * * * * * *
- Hai parlato dell'importanza
dell'ascoltare. Vedi delle possibilità, nel dojo di
avere dei momenti per ascoltare? Credo che questo può alleviare delle
sofferenze, vedi delle possibilità di introdurre qualcosa nella pratica del dojo per ascoltare?
- Mi sembra che tu abbia fatto l'esperienza, ed è bene creare un cerchio di discussione; a volte non stare tutto il tempo di fronte al muro, ma anche in cerchio e ognuno a turno si esprime sulle sue difficoltà, sulla sua pratica, sulla pratica e la vita quotidiana, e secondo me questo funziona ancora meglio se non diventa una discussione generale, ma semplicemente, come regola di base, ascoltare l'altro e eventualmente, alla fine, se qualcuno come te che è l'insegnante del dojo sente che può aiutare una persona, proporre eventualmente un dialogo a questa persona. Ma non che ogni volta che qualcuno dice qualcosa: Oh sì, conosco il problema, io ti spiego, discussioni...
- E tu sei d'accordo se si fa questo per esempio una volta al mese al posto di zazen o credi che sia necessario aggiungere.
- Penso sia bene fare uno zazen più corto, per esempio mezz'ora, e al posto del kin-hin: giratevi. Una volta al mese va bene.
* * * * * * * * * *
- La mia è una domanda sull'ascesi, nel senso, abbiamo parlato di questi cinque desideri, degli attaccamenti, e quando sento queste parole la mia prima reazione è quella di dire: devo dare una sterzata alla mia vita, devo cambiare qualcosa, no? Poi c'è stata l'altra parte, che è stata quella dell'avidità spirituale di cui hai parlato, e quindi a questo punto la mia domanda è: quanto bisogna aspettare dalla pratica un cambiamento e quanto dobbiamo entrare in gioco in riferimento, per esempio, a questi cinque desideri, e agli attaccamenti in generale? Quindi, quanto devo essere io che divento artefice in qualche modo di aver capito che c'è qualcosa che deve cambiare nella mia vita e quanto devo lasciare all'effetto della pratica naturalmente che questo avvenga?
- Ci devono essere entrambi gli aspetti. Ma bisogna capire che quando si dice la pratica, lasciare la pratica agire, certo è una pratica al di là dell'ego e del volontarismo, ma non è una pratica che è al di là dell'osservazione e della comprensione: è una pratica che include osservazione e comprensione, perché senza questa osservazione e comprensione, voler mettere fine ai cinque desideri fondamentali non è soltanto un'ascesi, ma diventa chiaramente una mortificazione una lotta in cui in definitiva non vi è poi una grande liberazione da ottenere. Per esempio, penso che è sì la pratica che deve permettere di risolvere i propri attaccamenti, per esempio l'avidità, ma una pratica illuminata, una pratica risvegliata, e non: solamente zazen, concentrarsi, concentrarsi; solamente la concentrazione non è la pratica giusta, lo zazen inteso come solamente concentrarsi sulla postura. Questo è yoga, non è zen. Lo zen, la meditazione del Buddha, implica l'osservazione di se stessi. E dunque, se vi è avidità, per qualsiasi tipo di avidità bisogna domandarsi: Cosa succede? Perché c'è questo? Che senso ha questo nella mia vita? Perché ho l'impressione di aver bisogno di passare continuamente da un oggetto a un altro, da un progetto a un altro? Perché non posso restare tranquillamente seduto su questo zafu? Cosa mi fa muovere senza sosta? Cosa fa sì che non sia sufficiente essere semplicemente seduto?
Allora, a questo punto, non si tratta di imporsi una pratica costante di zazen come fosse una mortificazione, una punizione, ma di comprendere cosa fa sì che siamo costantemente insoddisfatti, e che cerchiamo sempre qualcos'altro. Secondo me è un errore di base nella vita, non è una cosa naturale. Del resto ciò è tipicamente umano, gli animali non sono costantemente alla ricerca di cibo, cercano il cibo quando hanno fame, e quando hanno sonno dormono, ed è così per tutti i bisogni di base. Ci sono dei bisogni di base corporali che il Buddha non ha mai consigliato di eliminare, e il problema dell'essere umano è che al di là dei bisogni costruisce dei desideri e questi desideri sono tipicamente umani d'altronde. L'essere umano ha dei desideri...allora è un po' difficile; penso sia legato a una separazione, a un taglio, a una cesura che fa sì che il nostro mentale ci fa vivere nella dualità. Ho l'impressione che siamo costantemente nostalgici di uno stato di non separazione, e che questa nostalgia ci porti a credere che ci manca qualcosa e che esista in questo mondo di desideri un oggetto che potrebbe essere una persona, l'altra metà di colui che crede di aver bisogno di trovare la propria metà per essere infine soddisfatto. L'oggetto può essere anche un'ambizione sociale, artistica, un'ambizione spirituale, ogni sorta di desiderio che mi faccia pensare che se arrivo a questo sono soddisfatto. Anche il satori può essere inserito nello stesso processo. Credo che sia importante comprendere ciò per sé stessi. Credo che ognuno debba porsi la domanda e osservare da sé questo fenomeno. E se vediamo tutto questo chiaramente funzionare in noi stessi, allora possiamo lasciarlo cadere essendo realmente convinti della sua radicale inutilità. E' ciò che fa un po' la cosa tragica della condizione umana, ciò che è alla base di tutte le tragedie, le opere letterarie ed è la radice di tutti i bonno. E giustamente, se seguiamo la via del Buddha, è perché abbiamo fiducia nel fatto che ci sia un altro cammino possibile, altro rispetto al cammino tragico di perseguire continuamente gli oggetti dei nostri bonno.
E a questo punto il lavoro sui cinque desideri è una pratica immediata del risveglio, non una pratica di sforzo per superare...
- Si può dire che una pratica autentica come primo effetto porta a sensibilizzare l'osservazione su come siamo fatti e non immediatamente giudicare ma prima di tutto prenderne coscienza: questo è il primo regalo che ci fa una pratica autentica, vedere chiaramente chi siamo e come funzioniamo.
- Più si capisce, meno si deve utilizzare la volontà.
* * * * * * * * * *
- Cerco di parlare in italiano.
- Più forte. Tu non sei italiana?
- No, sono inglese. Questa domanda è legata un po' a questa ultima. La faccio per due motivi, uno di seconda mano e l'altro più personale. Mi hanno regalato un libro di un autore famoso buddhista americano che si chiama Jack Cornfield. Lui è (...) ed è anche uno psicologo importante in America, abbina tutte e due le cose, e una cosa che mi ha colpito e che anche mi ha un po' disturbato è che lui ha scritto che prima di poter abbandonare l'ego in una pratica meditativa, ci vuole un ego abbastanza resistente e forte, e allora la maggior parte delle persone dovrebbe andare in terapia, counseling prima di cercare di poter abbandonare l'ego con una pratica meditativa. Poi recentemente, personalmente, sto vivendo un periodo difficile della vita personale, una mia amica mi ha consigliato perché anche lei ha vissuto una crisi simile, personale, ed è andata in counseling, e mi ha consigliato di fare lo stesso e non fidarmi di una pratica secondo lei esoterica e meditativa. Volevo sentire una tua opinione su questo.
- Sono in gran parte d'accordo con Cornfield su quel punto, nel senso che abbandonare l'ego non vuol dire perderlo, ma andare al di là. Perdere l'ego vuol dire diventare schizofrenico, psicotico, e un ego non sufficientemente strutturato, con un senso di identità personale sufficientemente strutturata, rischia di portare a uno scompenso psicotico semplicemente perché l'essere umano ha bisogno per vivere nella società in modo equilibrato di avere un senso sufficientemente grande di identità personale e di essere sufficientemente in contatto coi suoi bisogni per trovare un equilibrio di vita, una soddisfazione di vita; questa soddisfazione dipende da ciascuno, ma abbiamo bisogno di soddisfazione: essere in contatto coi nostri bisogni ed essere capaci di soddisfarli almeno un po'. E a quel punto si può essere disponibili per rendersi conto che se si va nella direzione dell'ego, cercando di essere sempre più abili a scoprire i propri bisogni, i propri desideri e a soddisfarli, ciò non ci porterà che a nuovi bisogni e nuovi desideri, e dunque a una ricerca senza fine. Allora, a quel punto, possiamo andare al di là. Ma per qualcuno che è psicologicamente molto squilibrato - quando parlo di squilibrato penso a borderline, al limite della psicosi - per questo tipo di persone è effettivamente meglio cominciare a lavorare per costruire un senso di identità sufficientemente ... non solido, non bisogna costruire un ego come un cemento, ma un ego che funziona bene è un ego morbido. Il senso dell'identità personale non è trasformarsi in una specie di statua, attaccarsi a un'immagine di sé che si cerca costantemente di rinforzare, un'armatura rigida, ma avere un contatto coi propri bisogni sufficientemente realistico, una capacità di relazionarsi con gli altri senza essere costantemente in proiezioni nevrotiche, in modo di essere capaci di trovare delle relazioni normali nella vita quotidiana. Allora a quel punto, è possibile impegnarsi in una via spirituale, cioè un altro cammino al di là del funzionamento dell'ego. Ma se non si è arrivati a questo minimo vitale, il rischio è di tentare di utilizzare la spiritualità per ottenere quelle soddisfazioni che non si sono potute ottenere a causa della propria nevrosi.
Per riassumere, sono d'accordo con Jack Cornfield sui casi gravi, le persone borderline o al limite della psicosi devono fare un lavoro psicologico prima di impegnarsi in una via spirituale, ma anche per queste persone penso che non bisogna prima fare una terapia e poi avvicinarsi allo zen, ma è possibile fare le due cose insieme. Conosco molte persone borderline che praticano lo zazen e che fanno parallelamente un lavoro su se stessi, e funziona molto bene. Questo evita di voler utilizzare lo zazen al posto di una terapia. Lo zen non funziona come terapia.
Non sono d'accordo con Jack Cornfield quando giunge alla conclusione che praticamente tutti dovrebbero fare così. E' la tendenza di certi terapeuti che pensano che tutti dovrebbero fare una terapia, ma è esagerato. Perché è vero che siamo tutti un po' nevrotici, e abbiamo tutti un po' di conflitti. E' normale avere dei conflitti, avere dei desideri implica avere dei conflitti, ma si ha bisogno di una terapia quando si è talmente prigionieri dei propri conflitti da non poter vivere normalmente. E normalmente, quando si è a quel punto, non si ha neanche la disponibilità per voler seguire una via spirituale. Ma il rischio c'è - e io l'ho visto spesso, quando le persone hanno paura di confrontarsi con un terapeuta - che le persone pensino di utilizzare lo zen al posto di una terapia, e questo dà dei risultati molto cattivi. In generale, ma non sempre. Non si può mai dire. Ciò che è meraviglioso è che l'essere umano è imprevedibile. Non si possono fare pronostici. Si può pronosticare l'arrivo di una cometa tra duemila anni, ma non si può pronosticare cosa farà un essere umano domani. O.k.?
- Sì.
- Forse però non sai cosa devi fare per te, alla fine.
- No, io credo di sapere...
- Ah, credi di sapere. O.k., auguri.
- Grazie.
* * * * * * * * * *
- Sto leggendo l'Hokyo Zanmai e vorrei un piccolo tuo punto di vista su questa frase che dice: "Mezzanotte è la vera luce".
- La si può comprendere in tutti i casi in questo modo: che cosa rappresenta la notte? E' questa la domanda. Allora la si può comprendere come il momento in cui il mentale dualista si spegne. La luce del mentale dualista è spenta. La coscienza personale, ciò che generalmente è la nostra lampada, è la coscienza mentale dualista con la quale cerchiamo di discernere il bene, il male, il vero, il falso. Avanziamo con la nostra piccola lanterna e spesso questa luce della coscienza personale ci impedisce di vedere al di là di questo spirito dualista, e quindi restiamo costantemente prigionieri delle contraddizioni, delle opposizioni della dualità. E ciò ci fa cadere nella più profonda oscurità, questa falsa luce del mentale.
E inversamente, se si spegne questo mentale come si fa in zazen, normalmente si arrestano le cogitazioni dell'emisfero sinistro. Questo lascia il posto, apre la porta a un altro modo di vedere, un altro funzionamento dello spirito che normalmente è soffocato, che è lasciato nell'oscurità dalla falsa luce. Allora, è così che vedo questi versi. E in ogni modo si può dire anche che non c'è luce senza oscurità. L'assenza dell'oscurità è la luce. Se non ci fosse l'oscurità non ci sarebbe la luce, se non ci fosse la luce non ci sarebbe l'oscurità. Dunque l'oscurità implica la luce. La sola oscurità non esiste. Essere nel mezzo della notte implica che esiste il giorno, se no la parola notte non vorrebbe dire niente: viene la notte perché prima faceva giorno. Se non c'è giorno non c'è più notte. E questo vuol dire anche che la notte non esiste, e che neanche il giorno esiste. E' la vacuità, perché non esistono separatamente. Non c'è identità giorno o identità notte, esistono soltanto l'uno con l'altro. Possiamo comprenderlo così.
- E dunque "L'alba non è così chiara" vuol dire che...
- E' la stessa cosa. "L'alba non è così chiara" vuol dire che quando cominciamo a voler chiarire le cose attraverso il mentale, abbiamo l'impressione: "Ah, sì, è chiaro, ora capisco meglio". Ma in definitiva non è poi così chiaro. E' un insegnamento, alla fine, sui limiti. Sul fatto che la pretesa luce alla quale siamo attaccati è, in definitiva, limitata. E allo stesso modo l'oscurità è limitata.
E' anche un messaggio di speranza. E questo è il terzo modo di comprenderlo. A volte ci sono persone che hanno l'impressione di essere in un tunnel: "Non vedo più niente, non credo più in niente, non spero più niente". La notte oscura. Talvolta i mistici hanno parlato di questa notte oscura. E' il momento in cui anche la propria fede scompare, Dio scompare. Hanno consacrato tutta la vita a Dio, e di colpo Dio scompare. Oppure Buddha scompare, la fede in zazen scompare.
Allora quel momento può essere l'occasione di un cambiamento completo, di un approfondimento della comprensione a partire da questa totale oscurità, a partire dal lasciare la presa da tutte le nostre credenze, da tutto quello che crediamo di sapere, di aver sperimentato, di cui pensiamo di aver afferrato, compreso, chiarito, e a un certo punto diciamo: "No, non ci capisco più nulla". E quel momento è l'occasione di passare a un'altra dimensione. E in quel momento per le persone che sono nel tunnel sono parole di speranza. Anche se ora siete totalmente disperati, anche se ora non vedete più niente, abbiate fiducia che è un passaggio, e che al di là del tunnel c'è la luce.
* * * * * * * * * *
- La mia domanda può essere
semplice formulata in questo modo: é utile dedicare del tempo per uno studio
dei mistici cristiani e dei mistici buddhisti con le
relative correlazioni?
- Se è utile? Dipende dal tempo che richiede. Perché non si può passare tutta la vita a studiare i testi mistici e non avere più il tempo di fare zazen.
- Beh, sì, d'accordo, questo è evidente. Dedicando, diciamo, una parte del tempo. Ma la domanda in realtà ha un'altra...è, diciamo, molto più profonda nel senso che riguarda l'atteggiamento personale, o meglio la cultura che io in particolare, ma che ritrovo anche all'interno del sangha, si è ricevuta rispetto a una certa religione, e poco si dedica del tempo o si considera questa cultura ricevuta per proprio conoscersi meglio e approfondire. Questo perché lo dico? Lo dico perché ho raccolto all'interno del sangha punti di vista, osservazioni, cose dette che mi hanno molto stupito. Questo mi faceva un po' rivivere certe esperienze che avevo vissuto da bambina, magari atteggiamenti di suore, nel giudicare il comportamento di altri, o altre cose raccolte rispetto, non so, all'esistenza di Cristo e allora sono rimasta molto stupita di come poco persone che già trattano da tanto tempo non abbiano approfondito, magari delle fonti serie, ritenendo che questo sia molto utile proprio per capire quanto una cultura ha condizionato il percorso di una persona e quanto ancora c'è di questa cultura nell'agire, nel farci agire, nel farci giudicare quando poi apparentemente usiamo un altro schema, un altro registro. L'altra...
- Aspetta, aspetta, è sufficiente. Ancora una volta penso che è una questione di tempo disponibile, perché alla fin fine non abbiamo poi molto tempo a disposizione: il tempo passa in fretta. Quando si ha veramente incontrato una fede profonda in un cammino spirituale, qualunque esso sia, penso sia meglio concentrarsi su questo cammino. Perché non è sufficiente aver sviluppato questa fede o questa fiducia, bisogna andare fino in fondo a questa pratica. Questo richiede molto tempo, molta energia. E se nel momento in cui si cerca di approfondire la pratica di zazen si passa il proprio tempo a leggere i mistici cristiani o sufi, penso che in questo caso si farebbe meglio a praticare zazen. Se c'è del tempo da consacrare alla spiritualità, è meglio dedicarlo alla pratica.
Ma per esempio penso che ugualmente studiare un po' le altre religioni e le altre spiritualità sia un bene, per accorgersi finalmente che hanno dei punti in comune e non bisogna giudicare meno bene un'altra via rispetto alla nostra, che le altre vie sono anch'esse valide. Quest'apertura di spirito di conoscere le religioni degli altri, accettarle, rispettarle. Ma il problema è che il mentale cade facilmente in un attaccamento a conoscere tutti gli insegnamenti mistici, a trascorrere più tempo a contare le ricchezze degli altri che ad approfondire la propria ricchezza. Perché la cosa più importante non è la lettura, né dei mistici cristiani né dei buddhisti: la questione è veramente di realizzare se stessi attraverso la meditazione e attraverso la vita quotidiana. La lettura può essere una guida, può dare delle indicazioni, può a volte stimolare. Studiare la vita di Buddha, degli antichi maestri, dei mistici cristiani può essere uno stimolo, ma se uno passa il suo tempo a stimolarsi e poi non pratica diventa una masturbazione mentale. Questo è il rischio, O.k.?
- E' evidente, questo è un rischio, ma è anche la caratteristica poi di come una persona sceglie di approfondire questi testi. A me è capitato di incontrare persone che non sottovalutano la pratica, anzi, abbinano la pratica a questo studio. Sì, ho usato il termine studio ma volevo dire approfondimento, quindi non intendevo un discorso prettamente teorico, ecco. Anche perché, per esempio, siamo in una casa francescana, e mi è capitato di sentire rispetto a S. Francesco: la buddhità di S. Francesco, il bodhisattva S. Francesco, e a volte non si sa dare una spiegazione all'uso di questi termini. Quindi forse...
- In ogni caso a volte può aiutare trovare dei termini cristiani per comprendere l'insegnamento di Buddha. A volte ci si blocca sulle parole, e invece trovare delle corrispondenze col vocabolario delle due culture può aiutare.
- Sì, era questo. Volevo forse arrivare a questo.
Domenica
12 marzo 2006, kusen
delle 7:00
Per quanto possibile, fate uno sforzo per non tossire, perché più tossite, più avete voglia di tossire.
Durante zazen, continuate a dare tutta la vostra energia alla postura. Anche se siete stanchi, anche se a volte il corpo è dolorante, se date tutta la vostra energia alla pratica, grazie a questo sforzo la pratica diventa essa stessa forte, ed è la forza della pratica che vi sostiene per continuare.
Detto in altro modo, ciò che voi avete dato alla pratica, la pratica ve lo rende. E' veramente dare e ricevere.
Concentrarsi così, senza esitare, a praticare ciò che è giusto, è ciò che si chiama la diligenza: il quarto aspetto del satori del Buddha. Praticare ciò che è giusto senza esitare, concentrandosi con un solo spirito, e soprattutto con continuità.
Spesso le persone che incontrano la pratica di zazen sono entusiaste; ma dopo un certo periodo incontrano delle difficoltà e invece di essere stimolati da queste difficoltà e prenderle come dei koan, delle occasioni per approfondire la pratica, si scoraggiano e smettono. E invece continuare è in definitiva la cosa più importante, cioè lasciar cadere lo spirito di dubbio, l'esitazione. E' praticare con diligenza.
Buddha diceva: “Se siete diligenti nella vostra pratica, non sarà difficile realizzare il risveglio. E' come l'acqua che scorre regolarmente su una roccia e che finisce per consumarla. Al contrario - è sempre Shakyamuni Buddha che parla - se siete rilassati o pigri nella pratica, è come qualcuno che volesse accendere il fuoco con due selci e che si arrestasse prima che il fuoco sia cominciato. In questo modo, tutti i suoi sforzi precedenti sarebbero diventati inutili.”
E' per questo che continuare è così importante.
Nella vita quotidiana, molte persone fanno degli sforzi: per il loro lavoro, per soddisfare le loro ambizioni; quando l'ego vuole ottenere qualcosa, è capace di molti sforzi. Per esempio, gli sportivi che vogliono vincere delle medaglie ai giochi olimpici, sono capaci di sforzi concentrati per molti anni: ma è uno sforzo limitato, per ottenere un risultato egoistico. Al contrario, lo sforzo del bodhisattva non è solamente per se stesso, me è uno sforzo per diventare capace di venire in aiuto a tutti gli esseri: è uno sforzo che non separa sé dagli altri.
Quando la pratica è così, generosa, è già pratica di risveglio. E' come il passo in più sul palo alto trenta metri. Per arrivare in cima al palo, si fanno molti sforzi a titolo personale, ma continuare al di là della cima, è lo sforzo mushotoku, nel quale l'ego personale è completamente abbandonato. Allora possiamo ricevere l'energia di tutto l'universo, e così il bodhisattva è infaticabile.
E spesso i praticanti sono scoraggiati dall'immensità del voto del bodhisattva e si sentono incapaci di realizzarlo.
Ma se comprendiamo che non è "me" che salva tutti gli esseri, e che il nostro ruolo è semplicemente di mettere gli esseri in contatto con la Via, e che è la Via, cioè la pratica stessa che salva gli esseri, allora il nostro voto diventa molto più realistico.
Noi possiamo sempre fare ogni
giorno un passo in questa direzione, praticando con diligenza ciò che è giusto,
e invitando gli altri a fare la stessa cosa.
Domenica
12 marzo 2006, kusen
delle 11:00
Durante tutta la sesshin, il dojo è stato completamente silenzioso. Giusto adesso, per l'ultimo zazen, l'ultimo quarto d'ora, c'è un po' di rumore all'esterno, come per ricordarci che presto ritorneremo nel mondo rumoroso dei fenomeni.
La sesshin è l'occasione di concentrarci completamente su ogni pratica e a ogni istante; non ci sono altre preoccupazioni che che divenire uno con la Via.
Ma questa Via non è limitata al tempo della sesshin. Non è limitata né dal tempo, né dallo spazio, perché esiste ovunque e sempre. Non soltanto sotto i nostri piedi, davanti a noi, ma in noi stessi. Essere Buddha, significa risvegliarsi a questa realtà, alla realtà, e vivere in armonia con questa rivelazione.
Anche se una sesshin, un dojo, un tempio sono dei momenti e dei luoghi favorevoli per la pratica, il senso della nostra pratica è di fare della totalità della nostra vita un'unità con la pratica, se no la partecipazione a una sesshin crea dei rimpianti quando dobbiamo tornare alla vita quotidiana e ci sentiamo di nuovo come lontani dalla Via.
Perché ogni istante della vita quotidiana sia la continuazione della sesshin, è necessario ricordarci le basi della pratica e attualizzarle in ogni parola e in ogni azione della vita quotidiana. Ciò necessita di una qualità particolare: l'attenzione o, detto in altri termini, la vigilanza, cioè non essere distratti.
Questo è il quinto aspetto del satori del Buddha, del risveglio del Buddha: l'attenzione giusta, che significa allo stesso tempo di ricordarsi del Dharma.
Evidentemente chi pesca con l'amo è molto attento al galleggiante che segnala se il pesce ha abboccato; ciò non vuol dire che la pesca all'amo sia la pratica della Via.
Allora, a che cosa dobbiamo essere attenti, che cosa dobbiamo ricordarci? Dobbiamo essere attenti al nostro corpo, a come siamo nel nostro corpo a ogni azione; alla nostra respirazione; alle nostre sensazioni e alle nostre emozioni; al nostro stato di spirito, per esempio se siamo concentrati o distratti; e infine ai nostri pensieri o agli oggetti mentali. E tra questi oggetti mentali, ci sono le basi del Dharma, l'insegnamento: le quattro nobili verità, le sei paramita, i precetti, di cui dobbiamo ricordarci regolarmente e stare attenti a come li attualizziamo, a come li viviamo in ogni momento della vita quotidiana, in modo che non ci sia più una separazione tra l'insegnamento e la vita.
Ed è il motivo per cui Shakyamuni diceva che l'attenzione, cioè la vigilanza, è il sentiero del Nirvana e che all'inverso la negligenza è il sentiero della morte, non soltanto per gli incidenti stradali, ma della morte spirituale. Vuol dire che se siamo negligenti sprechiamo questa vita preziosa, il tempo prezioso di questa vita umana.
Al contrario, chi è vigile non muore perché realizza in ogni istante la non-nascita e la non-morte, armonizzandosi con la vera natura dell'esistenza, al di là di tutte le nostre fabbricazioni mentali. Ed è ciò che auguro ad ognuno di noi di realizzare.
Ciascuno al fondo di sé è Buddha. Essere attenti significa ricordarsi di questo e attualizzarlo. Non è semplicemente fare attenzione a non fare errori, ma essere attenti a ciò che noi siamo in realtà, e viverlo profondamente, come Buddha.
Traduzione: Franca
Mondino
Trascrizione: Chiara
Pandolfi, Milena Garavaglia,
Germana Tucci, Stefano Fiorini, Elena Ciocca
Revisione: Elena
Ciocca