17 DICEMBRE 2000
Giornata di zazen
al Dojo Zen Sanrin di Fossano
diretta dal Maestro Roland Yuno
Rech
Denkoroku : Kanadeva
Domenica
17 dicembre 2000, kusen
delle 8:15
All'inizio di zazen
prendetevi del tempo per sedervi bene sullo zafu.
Sedetevi al centro dello zafu ed
incrociate le gambe in modo che le ginocchia tocchino il suolo.
Prendiamoci del tempo per mettere i pollici all'interno dei pugni, i pugni
sulle ginocchia, e per oscillare energicamente sette otto volte a partire dalla vita, senza incurvare la colonna vertebrale.
Poi uniamo le mani in gassho all'altezza del viso, ci incliniamo profondamente in avanti e ci raddrizziamo, a
partire dalla vita, mantenendo il contatto delle ginocchia col suolo. Mettiamo
la mano sinistra nella mano destra, i pollici orizzontali, e il taglio delle
mani in contatto con il basso ventre, in modo che la braccia
cadano naturalmente, i gomiti staccati dal corpo.
Fin dall'inizio di zazen
ci concentriamo sui punti importanti della postura. Per esempio, l'inclinazione
corretta del bacino in avanti ci deve permettere di stare seduti come se l'ano
guardasse verso il cielo; in tal modo il punto che preme sullo zafu è il centro del perineo, che è un punto sorgente di energia. Le reni non devono
essere troppo tese, perché il ventre deve rimanere completamente rilassato. Ed anche il plesso solare, il diaframma, deve essere
completamente rilassato. Per questo motivo bisogna trovare il giusto equilibrio
dell'inclinazione del bacino in avanti. A partire dalla
vita estendiamo bene la colonna vertebrale, rilassando le contratture della
schiena, rilassando le spalle; tendiamo la nuca, il mento rientrato, il naso
sulla verticale dell'ombelico e le orecchie sulla verticale delle spalle.
Spingiamo bene il cielo con la sommità del capo e la terra con le ginocchia,
allora il corpo resta interamente esteso tra il cielo e la terra, con dolcezza,
senza rigidità.
La punta della lingua tocca
il palato proprio dietro gli incisivi. Se ci
concentriamo su questo punto, ciò aiuta ad arrestare la discussione interiore.
Durante zazen non c'è bisogno di fare
discorsi a se stessi, ma semplicemente pensare con il corpo, essere coscienti
del corpo intero, della respirazione. Lo sguardo è posato sul suolo davanti a
sé, senza fissare un punto speciale. Il Maestro Deshimaru
diceva sempre che in zazen si può
vedere nelle quattro direzioni: se lo sguardo non è polarizzato su un punto,
allora diventa vasto, come lo spirito che non afferra alcun pensiero. La
fronte, il viso, le mascelle sono rilassate.
Inspiriamo ed espiriamo profondamente
attraverso il naso. Per aiutare l'espirazione ad arrivare fino in fondo
possiamo spingere sulla massa addominale verso il basso. Bisogna evitare comunque di avere una respirazione troppo volontaria:
normalmente la respirazione diventa profonda e si allunga in modo naturale. Se la mente non segue alcun pensiero, se lo spirito è
rilassato, allora la respirazione diventa calma ed ampia in modo naturale. Ma se lo spirito è teso, la mente preoccupata, allora la
respirazione diventa corta. In quel caso possiamo concentrarci sull'espirazione
volontariamente, cercando di espirare il più a lungo possibile e concentrando
tutta l'energia sotto l'ombelico, nel punto di contatto del taglio delle mani con il basso ventre.
Non lasciatevi disturbare dai rumori, portate
la vostra attenzione sul contatto della punta dei pollici. Se
vi prende della sonnolenza, concentratevi sulla sensazione dell'aria che entra
nelle narici ed inspirare profondamente alcune volte. Si dice
che per calmare la mente, per tranquillizzare lo spirito, ci si concentra
invece sull'espirazione, sotto l'ombelico e sul contatto dei pollici. Poi
abbandonate tutte le preoccupazioni della vita quotidiana, non trattenetele. Se sorgono dei pensieri, osservateli appena un istante e lasciateli
passare, ritornando costantemente alla concentrazione sulla postura e sulla
respirazione. Solitamente crediamo che i nostri pensieri sono molto importanti
e finiamo per crearci da soli un mucchio di problemi, ma quando siamo seduti in zazen guardiamo
questi stessi pensieri e ci accorgiamo che non sono poi così importanti. E'
come se guardassimo l'agitazione degli uomini dalla cima di una montagna,
guardare la nostra vita dal punto di vista della cima della
montagna (la montagna di zazen, ovviamente): ogni
cosa riacquista la sua giusta dimensione - non poi così importante - e noi
possiamo ritrovare uno spirito libero, ampio.
Nel corso di questa giornata continuerò il
commento del Denkoroku del Maestro Keizan, la storia della trasmissione da maestro a
discepolo.
Il 15° Patriarca fu Kanadeva.
Un giorno incontrò Nagarjuna nella speranza di
diventare suo discepolo. Nagarjuna sapeva che Kanadeva era un uomo di grande
saggezza, quindi mandò il suo segretario a prendere una ciotola piena d'acqua e
la fece disporre davanti a Kanadeva. Quando Kanadeva la vide, gettò un
ago nella ciotola d'acqua e la offrì a Nagarjuna.
Così si incontrarono, realizzando con gioia di avere
lo stesso spirito: un incontro assolutamente senza parole, al di là delle
parole, senza nemmeno bisogno di provare la saggezza uno dell'altro, come
incontrasi e fare solo gassho, sampai,
al di là di qualunque discussione.
In zazen il nostro
spirito può diventare completamente puro, limpido, come dell'acqua quieta in
una ciotola, non disturbata dalla presenza di un ago. In zazen
non c'è bisogno di attaccarsi alla vacuità, semplicemente non bisogna seguire,
attaccarsi ai pensieri: non inghiottire l'ago, semplicemente lasciarlo sul
fondo.
Domenica
17 dicembre 2000, kusen
delle 11:00
Durante zazen
concentratevi completamente sulla vostra postura, rimanete in contatto con la
vostra respirazione e non cercate di afferrare alcunché
con la mente. L'atteggiamento fondamentale di zazen è
rimanere semplicemente seduti senza fare nulla di speciale, e senza attaccarsi
neppure a questo nulla.
Kanadeva era originario del sud dell'India e il 14°
Patriarca, Nagarjuna, andò proprio nel sud dell'India
per insegnare il Dharma del Buddha. Laggiù molte
persone erano interessate soltanto al profitto materiale e quando sentirono Nagarjuna parlare del Dharma gli dissero: " I benefici materiali sono ciò che conta. E tu parli della natura del Buddha inutilmente. Del resto,
chi può vederla? ". Nagarjuna rispose:
" Se volete vedere la natura del Buddha, dovete abbandonare il vostro
egoismo e il vostro orgoglio ". Allora gli
chiesero: " Ma questa natura del Buddha è vasta o è minuscola? ".
Le persone vogliono sempre poter immaginare, poter
afferrare, far rientrare nelle loro categorie mentali anche ciò che non ha
limiti. Nagarjuna rispose: " Né vasta né
minuscola, non apporta né benefici né ricompense, è senza nascita e senza
morte. " A quel punto furono colpiti da quell'insegnamento,
ne compresero la superiorità ed abbandonarono i loro pregiudizi.
Il nostro mondo attuale non è poi così diverso
da quello del sud dell'India di quei tempi: anche la nostra civiltà è
ossessionata dall'interesse materiale: quando sentiamo parlare di qualcosa,
vogliamo subito sapere a cosa serve, quali vantaggi possiamo
trarne. Talvolta perfino nell'insegnare lo Zen si pensa di doverne indicare i
benefici, parlare dei meriti di zazen: zazen fa bene alla salute, serve ad eliminare lo stress,
possiamo imparare a conoscere noi stessi, ottenere un po' di saggezza, essere
più concentrati. Tutto ciò è certamente vero, ma non è il punto essenziale.
Quando cerchiamo di sapere come zazen o il Dharma del Buddha possano essere
utili al nostro ego, li riduciamo automaticamente a qualcosa di molto limitato.
Se vogliamo partecipare alla vera dimensione del Risveglio
del Buddha e condividerla con gli altri, allora dobbiamo abbandonare il nostro
spirito utilitarista e praticare lo "zazen che
non serve a nulla".
La natura del Buddha di cui parla Nagarjuna non è qualcosa di esteriore,
qualcosa che si possa vedere, apprendere, e neppure qualcosa di interiore, di
nascosto nel profondo di noi stessi, non è un concetto, non è qualcosa che si
realizzerà nel futuro, non è qualcosa che appare alla nostra nascita e che
scompare alla nostra morte: è giustamente ciò che non può essere afferrato, ciò
che sfugge a tutte le nostre costruzioni mentali. Potremmo dire
che è la "nostra autentica natura", ma, poiché non può essere
posseduta, non è esattamente la "nostra" natura e, poiché non è
qualcosa di fisso, non è neppure propriamente una "natura". Ciò
nondimeno la si realizza quando pratichiamo zazen, quando non ci attacchiamo a nessun pensiero, quando
non cerchiamo né di afferrare né di evitare alcunché; allora il nostro spirito
diventa illimitato e ci possiamo armonizzare con la natura essenziale di tutti
gli esseri, abbandonando l'attitudine che separa, che divide, che rinchiude,
che limita; inconsciamente, naturalmente possiamo vivere in questa dimensione
della natura del Buddha, della non-separazione da tutti gli esseri; non è più
questione di sé o degli altri, di grande o di piccolo, di superiore o
inferiore, di permanente o impermanente; tutte le nostre categorie mentali
diventano inutili: siamo soltanto un corpo e uno spirito che respira insieme a
tutto l'Universo.
Domenica
17 dicembre 2000, kusen
delle 14:00
Durante zazen non
lasciate che la vostra mente si oscuri, cadendo nel torpore o continuando a
seguire i pensieri.
Dopo il loro incontro, Kanadeva
assisteva sempre ai sermoni di Nagarjuna
condividendone lo stesso seggio. Talvolta quando predicava il Dharma, Nagarjuna non si
accontentava di spiegare a voce, ma lo esponeva attraverso il suo stesso corpo:
prendeva la forma della luna piena, il suo corpo scompariva e non restava altro
che il cerchio della luna piena al suo posto. Allora Kanadeva
spiegava ai presenti che Nagarjuna stava
mostrando la vera forma della natura di Buddha, la forma del shamadi (cioè della concentrazione di zazen), che è senza forma (cioè senza attaccamento ad una
forma particolare).
Ad esempio in zazen
ci concentriamo sui più piccoli dettagli della postura del corpo - il mento
rientrato, il contatto dei pollici ben orizzontali, la schiena ben verticale -
e concentrandoci in questo modo sulla forma della postura, tutta la nostra
attività mentale ordinaria viene completamente
assorbita da questa stessa concentrazione: la concentrazione sulla forma del
corpo permette di realizzare uno spirito che è al di là di ogni attaccamento a
qualunque forma.
Quando la luna è piena, illumina completamente il
paesaggio. E allo stesso modo, quando la concentrazione in zazen
è forte, possiamo vedere chiaramente il sorgere di tutti i fenomeni, dei
pensieri, delle sensazioni, delle emozioni; anche tutto ciò che di solito è in
ombra viene illuminato dalla concentrazione. La luce
della luna illumina tutto il paesaggio, e si riflette sul vasto oceano allo
stesso modo che su una goccia di rugiada, senza creare alcuna differenza tra
ciò che è vasto e ciò che è piccolo; illumina ovunque e si riflette su ogni
cosa. E nel contempo la luna stessa resta
inafferrabile, proprio come lo spirito in zazen.
Kanadeva diceva: "Il senso della natura di
Buddha è questa luce totalmente chiara, vuota, inafferrabile". Quando Nagarjuna predicava il Dharma, la
sua forma scompariva completamente, diventava inafferrabile, enunciando in tal
modo chiaramente che l'essenza dell'insegnamento del Buddha, non ha forma e non
la si può ridurre a dei suoni, a delle parole.
Quando il Dharma è
autenticamente esposto, non c'è contenuto dell'insegnamento, non c'è
insegnamento, non c'è nessuno che insegna e nessuno che riceve l'insegnamento;
solo la forma della luna piena, solo la forma della postura di zazen, qui e ora, senza nulla da aggiungere e nulla da
togliere.
Domenica
17 dicembre 2000, mondo delle
15:30
- Quando pratichiamo
nel dojo e siamo tutti insieme è più facile
controllare e concentrarsi sulle cose della vita del dojo.
Poi usciamo dal dojo e viviamo la nostra vita.
Sperimentiamo quello che ci capita in zazen, ma c'è
differenza, a guardare le cose quando appaiono e a
lasciarle andare: tra il guardarle e lasciarle passare c'è anche il nostro
attaccamento, c'è della sofferenza.
- Ma noi guardiamo
anche l'attaccamento.
- Sì, e questo ci insegna
anche ad accettare e ad avere più consapevolezza.
- Allora?
- Quest'anno ho sperimentato un aspetto della
mia vita che non conoscevo, che mi ha portato a vedere la mia
propria sofferenza, la mia vulnerabilità: mostrare di non avere più
difese, mostrarmi com'ero, mostrare i sentimenti… Ho anche avuto paura, quando
decidiamo di lasciare "uscire". Quanto bisogna lasciare uscire? Mi ha
detto una persona che, senza difese, può diventare pericoloso per noi e per gli
altri.
- Non avere più difese di che cosa? Cosa c'è da difendere?
- Sì, lo so, non c'è niente da difendere, ma è
un'esperienza che si fa. Quando si sperimenta la
vulnerabilità, ci si rende…
- Cosa vuol dire
vulnerabilità? Hai paura di essere ferita?
- Sì, sì. Abbandonare le
difese mostrandosi come… come non ci si conosce. E
non sapere creare delle difese per non essere ferita.
- Sei stata veramente ferita?
- Sì, sì, a causa di questo, del mio
attaccamento.
- Allora?
- In un'amica ho visto un altro di tipo di
vulnerabilità e di instabilità. Non so se è giusto, ma
ho pensato che questa amica abbia tentato il suicidio…
ho pensato che è una cosa che non si può controllare… era bene lasciare uscire
oppure bisognava trattenere? E' come nella pratica: bisogna ricevere aiuto.
- Non è troppo chiaro. Cosa
è successo dunque? Hai una amica che ha tentato di
suicidarsi?
- Sì.
- E allora?
- Ed è in quello
stesso periodo che io ho provato questa mia vulnerabilità. E' successo questo.
- E allora? Quale
relazione c'è? C'è una relazione tra la tua attitudine di avere paura, lasciare
cadere le tue difese, diventare vulnerabile e il fatto che lei abbia tentato di
suicidarsi?
- Sì, mi sono chiesta se poteva
essere un aspetto che faceva parte di me il pensare di uccidersi, se uno poteva
arrivare a fare un gesto come quello.
- Tu stessa?
- Sì, sì. La sofferenza in qualche momento è
una sofferenza che non si può controllare.
- Dunque, se la tua
amica ha tentato di suicidarsi, allora anche tu potresti arrivare a ciò?
- Sì, anche se non mi è
mai capitato di pensarlo…
- Penso che tu stessa costruisci la tua paura.
Non è necessario. Devi essere più presente a ciò che c'è e non immaginarti
quello che potrebbe accadere. La tua paura mi sembra un po' immaginaria, non
reale.
- Non è quello che volevo dire. Quello che
volevo dire è diverso e riguarda un aspetto della pratica: quando qualcosa di
nuovo succede, io lo sento più con il corpo che con la testa, adesso. Ma è per questo che mi chiedo: razionalmente non ho
controllato tutto quello che è capitato... E' nata questa paura.
- Hai paura di perdere il controllo del tuo
corpo, che sia il tuo corpo da solo a commettere
qualche stupidaggine?
- Sì. Sono stata abituata a controllare tutto
razionalmente. Ma mi capita da qualche anno, da quando
pratico più regolarmente zazen, che le cose arrivino
così... Ho percepito questa cosa. Non so se è qualcosa che è solo una
costruzione mentale o se c'è un vero pericolo che possa capitare una cosa del
genere. Quando ci sediamo in zazen,
noi non sappiamo che cosa siamo, che cosa capita; le cose escono e…
- Ci sono cose che appaiono, ma ciò che appare
noi non lo facciamo muovere. E' questo che bisogna
comprendere. In zazen sperimentiamo appunto che tutto
può apparire, anche le angosce, le paure, i desideri, tutti i fantasmi, ma
passano. Non li seguiamo, non ci muoviamo Allora devi avere fiducia in stessa, cioè di essere capace di contenere tutto ciò, di conglobarlo
senza sentirsi obbligata di passare all'azione. La pratica di zazen ci insegna giustamente
questa libertà, di accettare di vedere tutto ciò che appare in noi, le pulsioni
più bizzarre, senza tuttavia esserne condizionati, trascinati. In zazen, anche se una paura sorge, ci concentriamo sulla espirazione, guardiamo l'emozione, guardiamo
l'oggetto, ci rendiamo conto che non ha sostanza, che è immaginario, che qui e
ora non c'è nulla, c'è soltanto una quarantina di persone sedute in zazen; tutto è calmo. E questo
permette di mettere tutte le costruzioni mentali al loro posto, senza
reprimerle, ed accettare di vedere ciò che ci anima, senza però esserne
condizionati. Questa è una grande libertà, che può
assoluta-mente continuare nella vita quotidiana: nella vita quotidiana qualcosa
appare, un'emozione, un desiderio; è bene riconoscerlo, ma non è perché lo
riconosciamo, lo accettiamo, che poi automaticamente lo seguiamo. Giustamente
l'abitudine di praticare zazen permette di avere
questa cura, di vedere quello che succede, ma non esserne trascinati
automaticamente. Quindi è il contrario di ciò di cui
hai paura. Zazen non è né il controllo volontario, la
repressione, ma non è neppure il seguire, il lasciarsi andare, l'abbandonarsi e
seguire tutto ciò che ci anima. C'è differenza tra vedere e aderire, essere
trascinati. Ciò che può aiutarci ad andare al di là delle
nostre paure è giustamente il non identificarsi con il gioco della paura.
D'altra parte nella vita quotidiana talvolta è necessario avere paura, ad un
altro livello: ci sono cose pericolose. E' importante avere
la lucidità di prendere coscienza dei pericoli, di comprendere bene i pericoli
- non parlo delle nostre costruzioni mentali, della nostra
immaginazione, ma della realtà -. C'è la paura immaginaria, che provoca
soltanto angoscia, ma c'è anche la paura come segnale di un pericolo reale, che
dobbiamo fare attenzione e prevenire per evitare di danneggiarci.
D'accordo?
* * * * * * * * * *
- Ci hai parlato del samadhi di zazen. Il
Buddha ha insegnato samadhi e vipassana. Esiste vipassana nello zazen? E, se
esiste, come si fa?
- Vipassana in
zazen è l'osservazione, e samadhi
è lo stato di concentrazione che permette di pacificare l'agitazione mentale,
in modo di avere lo spirito più chiaro e di essere
capace di illuminare i fenomeni che sorgono dall'interno o dall'esterno. Ma la
differenza propria del vipassana - in cui c'è una analisi, una classificazione dei fenomeni che sorgono,
un'osservazione molto sistematica messa in rela-zione con gli insegnamenti del
Buddha - è che implica un'attività mentale, un'attività di analisi. In zazen si tratta solo di vedere, di vedere
profondamente: non soltanto "questo è quel tale fenomeno, un'emozione,
ecc.", ma vedere essenzialmente che tutto ciò che sorge in questo
momento in definitiva non ha sostanza, vedere la vacuità di tutti i fenomeni.
Questo è il punto più importante. Se no possiamo
perderci in una osservazione infinita, e diventare agitati, concitati. E'
quello che è capitato un po' nella storia del Buddhismo, dopo la morte del
Buddha: è stata molto sviluppata l'osservazione, hanno analizzato, classificato
tutti i fenomeni e tutto ciò è diventato molto complicato. Questo è il motivo
della comparsa del Mahayana, per tornare all'essenza
dell'insegnamento del Buddha, vedere la vacuità, non
lasciarsi trascinare da un'osservazione che rende lo spirito complicato, vedere
l'essenziale, non fermarsi ai fenomeni. Zazen è
questa pratica di concentrazione e di osservazione
simultanee, in cui non si ristagna nell'osservazione: è un'osservazione rapida,
immediata, poi lasciar passare; riconoscere le cose e al tempo stesso vederne
la non sostanza. Non è soltanto una "tecnica dello zafu", non è solo "zapping".
E' vedere, vedere profondo, vedere il sorgere e la non
sostanza, l'inafferrabile. Allora a quel punto non c'è bisogno di mettere
energia per scacciare i pensieri, per lasciarli passare: si dissolvono come del
vapore, come delle nuvole.
D'accordo?
Domenica
17 dicembre 2000, kusen
delle 16:00
La storia dell'incontro tra Kanadeva
e Nagarjuna non è una storia ordinaria: come fa
notare il Maestro Keizan, Nagarjuna
non dice una parola, Kanadeva non sente alcuna parola, e a quel punto è difficile distinguere il maestro
dal discepolo. E' proprio come in zazen: tutti pratichiamo zazen allo stesso
modo, concentrati sulla postura, sulla respirazione, allo stesso modo. Certo, i nostri pensieri, le nostre illusioni sono differenti,
il karma di ognuno, che si manifesta, è differente; ma se non lo seguiamo, se
non ci identifichiamo con i nostri pensieri, se li lasciamo passare, se
ritorniamo a ku, alla vacuità, allora improvvisamente
in ku non c'è più nessuna differenza. Nel dojo siamo differenti per età, per sesso, per anzianità,
monaci, monache, principianti, ma il nostro modo di praticare la Via è simile.
Alla fine, al di là delle nostre differenze, zazen ci porta al punto in cui non c'è più separazione,
dove ciò che crea le differenze non è più così importante.
A proposito di questa similitudine Keizan dice che è "come la
neve accumulata sul pianoro d'argento" o "come la gru che si
nasconde nella luce della luna" (la gru è un uccello acquatico
bianco). Il colore della neve, il colore del pianoro d'argento, il bianco
dell'uccello, il bianco della luce della luna, il bianco della neve sono allo stesso tempo simili e differenti. E allo stesso modo in zazen
sperimentiamo le differenze tra noi: ciascuno è completamente unico, ma in
fondo queste differenze sono molto relative, l'essenza della nostra esistenza è
esattamente la stessa.
Anche se la funzione del maestro e quella del
discepolo sono differenti, lo spirito della pratica è ciò che li riunisce, che
li conduce assieme al di là di ogni differenza. Ed è
ciò che si esprime quando facciamo gassho
o sanpai: ognuno pratica con il proprio corpo, ma
nella pratica questo stesso corpo viene abbandonato e, nel distacco, diventa
simile al corpo del Buddha. Quando siamo totalmente concentrati nella pratica
non c'è più differenza tra sé e il Buddha, poiché lo
spirito che potrebbe creare queste differenze viene abbandonato; non esistono
più nozioni come "me" o "Buddha", ma semplicemente un corpo
ed uno spirito abbandonati nella pratica. Nella pratica il cammino del maestro,
il cammino del discepolo, la Via del Buddha, diventano
unità.
Tuttavia, se vediamo solo l'unità e ci
attacchiamo ad essa, se vediamo solo l'acqua pura e
non vediamo l'ago in fondo alla ciotola, allora, come dice Keizan,
possiamo sbagliarci ed inghiottirlo, piantandocelo in gola. L'acqua è l'acqua e l'ago è l'ago: pur senza attaccarsi alle differenze,
è importante vederle.
Se vediamo solo i fenomeni, se osserviamo
soltanto i pensieri, allora diventiamo rapidamente complicati ed appare ogni
sorta di attaccamenti e di paure. Ma
se vediamo soltanto la vacuità, anche ciò può essere causa di pericolo.
Zazen ci insegna ad
abbracciare i due aspetti con un solo sguardo e a non attaccarci né ai fenomeni
né alla vacuità: né inghiottire completamente l'acqua della ciotola, né
rifiutarla del tutto, rovesciarla e tirar via.
Traduzione: Maresa Myogen
Di Noto
Annotazione: Claudio Pellegrino, Bruno Brugnoli
Raccolta
e trascrizione: Lucio Yushin Morra